IL CIELO E L'INFERNO OVVERO LA GIUSTIZIA SECONDO LO SPIRITISMO

Allan Kardec

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Capitolo VI - DOTTRINA DELLE PENE ETERNE

Origine della dottrina delle pene eterne -
Argomenti a sostegno delle pene eterne Impossibilità materiale delle pene eterne -
La dottrina delle pene eterne ha fatto il suo tempo - Ezechiele contro l'eternità delle pene e il peccato originale


Origine della dottrina delle pene eterne


1. La credenza nell'eternità delle pene perde ogni giorno talmente terreno che, senza essere profeta, ciascuno può prevederne la fine alquanto vicina. Tale dottrina è stata combattuta con argomenti così possenti e così perentori, che sembra quasi superfluo d'ora in avanti occuparsene, essendo sufficiente lasciare che essa si estingua da sé stessa. Tuttavia non si può nascondere che, per quanto sia caduca, essa è tuttora il punto di collegamento degli avversari delle idee nuove, punto ch'essi difendono con il massimo accanimento, perché è uno dei lati più vulnerabili e perché essi prevedono le conseguenze della sua caduta. Da questo punto di vista, tale questione merita un serio esame.

2. La dottrina delle pene eterne, come quella dell'inferno materiale, ha avuto la sua ragion d'essere, allorché questa paura poteva costituire un freno per gli uomini intellettualmente e moralmente poco avanzati. Come poco, o niente affatto, sarebbero stati impressionati dall'idea di pene morali, non molto di più lo sarebbero stati dall'idea di pene temporanee. Essi non avrebbero neppure compreso la giustizia delle pene graduate e proporzionate, perché non erano nelle condizioni di cogliere le sfumature, spesso delicate, del bene e del male, né il valore relativo delle circostanze attenuanti o aggravanti.

3. Quanto più gli uomini sono vicini allo stato primitivo, tanto più sono materiali; il senso morale è quello che, in loro, si sviluppa più tardi. Per questo stesso motivo, essi non possono farsi che un'idea molto imperfetta di Dio e dei Suoi attributi, e un'idea non meno vaga della vita futura. Assimilano Dio alla loro stessa natura. Dio è per loro un sovrano assoluto, tanto più temibile in quanto è invisibile, come un monarca despota che, nascosto nel suo palazzo, non si mostra mai ai suoi sudditi. Ed Egli non è potente che per la forza materiale, poiché essi non hanno la concezione della potenza morale; Lo vedono solo armato della folgore, in mezzo a lampi e tempeste, che semina al Suo passaggio la rovina e la desolazione, sull'esempio dei guerrieri invincibili. Un Dio di mansuetudine e di misericordia non sarebbe un Dio, ma un essere debole che non saprebbe farsi obbedire. La vendetta implacabile, i castighi terribili ed eterni, nulla avevano di contrario all'idea che si facevano di Dio, nulla che ripugnasse alla loro ragione. Implacabili essi stessi nei loro risentimenti, crudeli verso i loro nemici, senza pietà per i vinti, Dio, che era loro superiore, doveva per forza essere ancora più terribile.

Per uomini tali, v'era bisogno di credenze religiose adeguate alla loro natura ancora rozza. Una religione tutta spirituale, fatta tutta di amore e di carità, non poteva essere associata alla brutalità dei costumi e delle passioni. Non biasimiamo, perciò, Mosè per la sua legislazione draconiana, che era appena sufficiente a contenere il suo popolo indocile, né d'aver fatto di Dio un Dio vendicatore. Di questo c'era bisogno a quell'epoca; la dolce dottrina di Gesù non vi avrebbe trovato eco e sarebbe stata impotente.

4. Man mano che lo Spirito si è sviluppato, il velo materiale si è poco a poco dissipato, e gli uomini sono stati più adatti a comprendere le cose spirituali; ma ciò non è avvenuto che gradualmente. Quando Gesù è giunto sulla Terra, egli ha potuto annunciare un Dio clemente, ha potuto parlare del Suo regno, che non è di questo mondo, e dire agli uomini: "Amatevi gli uni con gli altri, fate del bene a coloro che vi odiano". Gli antichi, invece, dicevano: "Occhio per occhio, dente per dente".

Orbene, chi erano gli uomini che vivevano al tempo di Gesù? Erano anime da poco create e incarnate? Se così fosse, Dio avrebbe dunque creato al tempo di Gesù delle anime più avanzate che al tempo di Mosè. Ma, allora, che sarebbe avvenuto di queste ultime? Avrebbero esse languito per l'eternità nell'abbrutimento? Il semplice buon senso respinge questa supposizione. No: c'erano le medesime anime, le quali, dopo aver vissuto sotto il dominio della legge mosaica, avevano, attraverso numerose esistenze, acquisito uno sviluppo sufficiente per comprendere una dottrina più elevata. Al giorno d'oggi queste anime sono abbastanza avanzate da ricevere un insegnamento ancora più completo.

5. Tuttavia, il Cristo non ha potuto rivelare ai suoi contemporanei tutti i misteri del futuro. Gesù stesso ha detto: "Io avrei ancora molte cose da dirvi, ma voi non le comprendereste; ed è per questo che io vi parlo in parabole". Su tutto ciò che riguarda la morale, vale a dire i doveri dell'uomo verso l'uomo, egli è stato molto esplicito, perché toccando la sensibile corda della vita materiale, sapeva di essere compreso; sugli altri punti, egli si limita a seminare, sotto forma allegorica, i germi di ciò che dovrà essere sviluppato più tardi.

La dottrina delle pene e delle ricompense future appartiene a quest'ultimo ordine di idee. Soprattutto riguardo alle pene, egli non poteva rompere tutt'a un tratto con le idee precostituite. Egli veniva per indicare agli uomini nuovi doveri: la carità e l'amore verso il prossimo sostituivano lo spirito di odio e di vendetta; l'abnegazione si sostituiva all'egoismo. Ed era già molto. Non poteva razionalmente indebolire il timore del castigo riservato ai prevaricatori, senza indebolire nello stesso tempo l'idea di dovere. Prometteva il regno dei cieli ai buoni; questo regno, dunque, era interdetto ai malvagi; e questi dove sarebbero andati? Inoltre, sarebbe stata necessaria una inversione della Natura, per impressionare delle intelligenze ancora troppo materiali per identificarsi con la vita spirituale. Infatti, non si deve perdere di vista che Gesù si rivolgeva al popolo, alla parte meno illuminata della società, per la quale c'era bisogno di immagini in qualche modo palpabili, e non di idee sottili. È per questo ch'egli, a tale riguardo, non entrava in dettagli superflui: gli bastava contrapporre una punizione alla ricompensa. Non c'era bisogno d'altro a quell'epoca.

6. Se Gesù ha minacciato i colpevoli con il fuoco eterno, li ha anche minacciati che sarebbero stati gettati nella Geenna; ora, che cos'era la Geenna? Un luogo nei dintorni di Gerusalemme, una discarica dove si gettavano le immondizie della città. Si dovrebbe, dunque interpretare anche questo alla lettera? Era una di quelle immagini forti col cui aiuto impressionava le masse. La stessa cosa dicasi per il fuoco eterno. Se tale non fosse stata la sua intenzione, egli sarebbe in contraddizione con sé stesso quando esaltava la clemenza e la misericordia di Dio, poiché la clemenza e l'inesorabilità sono dei contrari che si annullano. Vorrebbe dunque dire ingannarsi bizzarramente sul significato delle parole di Gesù, il fatto di vedervi la convalida del dogma delle pene eterne, dal momento che ogni suo insegnamento proclama la clemenza del Creatore.

Nel Padre nostro, Gesù ci insegna a dire: "Signore, rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori". Se il colpevole non avesse alcun perdono in cui sperare, sarebbe inutile domandarlo. Ma questo perdono è senza condizioni? È una grazia, una remissione pura e semplice della pena in cui si è incorsi? No. La misura di questo perdono è subordinata alla maniera con cui noi stessi avremo perdonato; vale a dire che se noi non perdoniamo, noi non saremo perdonati. Dio, facendo dell'oblio delle offese una condizione assoluta, non poteva esigere che il debole uomo facesse ciò ch'Egli, l'Onnipotente, non avrebbe mai fatto. Il Padre nostro è una sconfessione quotidiana contro l'eterna vendetta di Dio.

7. Per degli uomini che non avevano che una confusa nozione della spiritualità dell'anima, l'idea del fuoco materiale non aveva niente di traumatizzante, anche perché essa sussisteva nella credenza popolare, attinta in quella dell'inferno dei pagani, quasi universalmente diffusa. L'eternità della pena non aveva nulla che ripugnasse a della gente sottomessa da secoli alla legislazione del terribile Geova. Nel pensiero di Gesù, il fuoco eterno non poteva dunque essere che una immagine; poco gli importava che questa immagine fosse presa alla lettera, dal momento che essa doveva servire da freno. Egli sapeva bene che il tempo e il progresso avrebbero dovuto assumersi l'incarico di farne comprendere il senso allegorico, soprattutto allorché, secondo la sua predizione, lo Spirito di Verità sarebbe venuto a illuminare gli uomini su tutte le cose.

Il carattere essenziale delle pene irrevocabili sta nell'inefficacia del pentimento. Ora, mai Gesù ha detto che il pentimento non avrebbe trovato grazia davanti a Dio. Al contrario, in ogni occasione, egli ci mostra un Dio clemente, misericordioso, pronto a ricevere il figliol prodigo rientrato sotto il tetto paterno. Egli ci mostra un Dio inflessibile solo verso il peccatore irriducibile; ma se Egli tiene il castigo in una mano, nell'altra tiene sempre il perdono ed è pronto a riversarlo sul colpevole non appena questi ritorna sinceramente a lui. Questa non è di certo la rappresentazione di un Dio senza pietà. C'è anche da notare che Gesù non ha mai pronunciato contro nessuno, neppure contro i più grandi colpevoli, delle condanne irrevocabili.

8. Tutte le religioni primitive, in accordo con il carattere dei popoli, hanno avuto degli dei guerrieri che combattevano alla testa degli eserciti. Il Geova degli Ebrei forniva loro mille mezzi per sterminare i nemici; egli li ricompensava per la vittoria, li puniva per la sconfitta. A seconda dell'idea che ci si faceva di Dio, si riteneva di onorarlo o di appagarlo con il sangue degli animali o degli uomini: da qui i sacrifici sanguinosi che hanno rappresentato un così grande ruolo in tutte le religioni antiche. I Giudei avevano abolito i sacrifici umani; i Cristiani, nonostante gli insegnamenti del Cristo, hanno per lungo tempo creduto di onorare il Creatore gettando, a migliaia, alle fiamme e alle torture quelli ch'essi chiamavano eretici. Erano, sotto un'altra forma, veri e propri sacrifici umani, poiché venivano fatti per la maggior gloria di Dio e con un accompagnamento di cerimonie religiose. Ancor oggi, i Cristiani invocano il Dio degli eserciti prima del combattimento e lo glorificano dopo la vittoria, e ciò avviene spesso per le cause più ingiuste e più anticristiane.

9. Quanto lento è l'uomo a disfarsi dei suoi pregiudizi, delle sue abitudini, delle sue idee primitive! Quaranta secoli ci separano da Mosè, e la nostra generazione cristiana vede ancora tracce delle antiche usanze barbare consacrate, o almeno approvate, dalla religione attuale! C'è stato bisogno della potenza dell'opinione dei non ortodossi, di coloro che sono ritenuti eretici, per mettere fine ai roghi e far comprendere la vera grandezza di Dio. Ma, in assenza dei roghi, le persecuzioni materiali e morali sono ancora in pieno vigore, tanto l'idea di un Dio crudele è radicata nell'uomo. Cresciuto nei sentimenti che gli vengono inculcati fin dall'infanzia, può forse l'uomo meravigliarsi se il Dio, che gli presentano come onorato da atti barbari, condanna a torture eterne e osserva senza pietà alcuna le sofferenze dei dannati?

Sì. Ci sono dei filosofi — empi secondo alcuni — i quali si sono scandalizzati nel vedere il nome di Dio, profanato da atti indegni di Lui. Sono coloro che l'hanno mostrato agli uomini in tutta la Sua grandezza, dispogliandoLo delle passioni e delle grettezze umane attribuiteGli da una fede non illuminata. La religione ha guadagnato in dignità ciò che essa ha perduto in prestigio esteriore. Infatti, se ci sono meno uomini attaccati alla forma, ce ne sono molti di più che sono sinceramente religiosi con il cuore e con i sentimenti.

Ma, a fianco di questi, quanti sono quelli che, arrestandosi alla superficie, sono stati indotti alla negazione di ogni provvidenza! Non avendo saputo mettere, al momento opportuno, in armonia le credenze religiose con il progresso della ragione umana, si è fatto nascere negli uni il deismo, negli altri la miscredenza assoluta, in altri ancora il panteismo, vale a dire che l'uomo si è fatto dio lui stesso, non vedendone alcuno abbastanza perfetto.


Argomenti a sostegno delle pene eterne


10. Ritorniamo al dogma dell'eternità delle pene. Il principale argomento che viene invocato a suo favore è il seguente:

"È dottrina sancita tra gli uomini che la gravità dell'offesa è proporzionale al valore dell'offeso. L'offesa che è commessa nei confronti di un sovrano, essendo considerata più grave di quella che riguarda soltanto un privato cittadino, è punita più severamente. Ora, Dio è più di un sovrano; poiché Egli è infinito, infinita è l'offesa verso di Lui e deve perciò avere un castigo infinito, cioè eterno."

Confutazione — Ogni confutazione è un ragionamento che deve avere il suo punto di partenza, una base su cui poggiare, in una parola, delle premesse. Noi prendiamo tali premesse negli attributi stessi di Dio:

Dio è unico, eterno, immutabile, immateriale, onnipotente, sovranamente giusto e buono, infinito in tutte le sue perfezioni.

È impossibile concepire Dio in modo diverso dall'infinito delle perfezioni; altrimenti Egli non sarebbe Dio, perché si potrebbe concepire un altro essere che possiede quanto a Lui manca. Perché sia il solo al di sopra di tutti gli esseri, bisogna che non ci sia alcuno che possa superarlo né eguagliarlo in una qualsiasi cosa. Bisogna, dunque, ch'Egli sia infinito in tutto.

Essendo gli attributi di Dio infiniti, essi non sono suscettibili né di aumenti né di diminuzioni; altrimenti non sarebbero infiniti, né Dio sarebbe perfetto. Se si togliesse la più piccola particella da uno solo dei suoi attributi, non si avrebbe più Dio, poiché potrebbe esistere un essere più perfetto.

L'infinito di una qualità esclude la possibilità dell'esistenza di una qualità contraria che potrebbe sminuirla o annullarla. Un essere infinitamente buono non può avere la più piccola particella di malvagità, né l'essere infinitamente malvagio può avere la più piccola particella di bontà; allo stesso modo che un oggetto non potrebbe definirsi d'un nero assoluto, se avesse la più leggera sfumatura di bianco, né definirsi d'un bianco assoluto con la più piccola macchia di nero.

Posto questo punto di partenza, all'argomento di cui sopra vengono opposti gli argomenti che qui di seguito elenchiamo.

11. Un essere infinito può compiere solo qualcosa d'infinito. L'uomo, essendo limitato nelle sue virtù, nelle sue cognizioni, nella sua potenza, nelle sue attitudini, nella sua esistenza terrena, non può produrre che cose limitate.

Se l'uomo potesse essere infinito in ciò che fa di male, egualmente lo sarebbe in ciò che fa di bene, e allora sarebbe uguale a Dio. Ma, se l'uomo fosse infinito in ciò che fa di bene, non farebbe del male, poiché il bene assoluto comporta l'esclusione di ogni male.

Ammettendo che un'offesa temporanea contro la Divinità possa essere infinita, Dio, vendicandosi con un castigo infinito, sarebbe infinitamente vendicativo; s'Egli è infinitamente vendicativo, non può essere infinitamente buono e misericordioso, poiché l'uno di questi attributi è la negazione dell'altro. Se non è infinitamente buono, Egli non è perfetto e, se non è perfetto, Egli non è Dio.

Se Dio è inesorabile verso il colpevole che si pente, Egli non è misericordioso; se non è misericordioso, Egli non è infinitamente buono.

Perché Dio dovrebbe imporre all'uomo una legge del perdono, se Lui stesso non dovesse perdonare? Ne risulterebbe che l'uomo che perdona ai suoi nemici, e rende loro bene per male, sarebbe migliore di Dio che resta sordo al pentimento di colui che l'ha offeso e gli rifiuta, per l'eternità, il più lieve intenerimento!

Dio, che è dappertutto e vede tutto, dovrebbe pur vedere le torture dei dannati. Se è insensibile ai loro lamenti durante tutta l'eternità, Egli è eternamente senza pietà. Se è senza pietà, non è infinitamente buono.

12. A ciò si risponde che il peccatore, che si pente prima di morire, ha la misericordia di Dio, e che allora il più grande colpevole può trovare grazia davanti a Lui.

Questo non è messo in dubbio, e ben si comprende che Dio perdoni solo al pentito e sia inflessibile nei confronti dei protervi. Ma s'Egli è pieno di misericordia per l'anima che si pente prima di aver abbandonato il suo corpo, perché cesserebbe di esserlo per quella che si pente dopo la morte? Perché il pentimento avrebbe efficacia solo in vita, che non è che un istante, e non ne avrebbe più durante l'eternità, che non ha fine? Se la bontà e la misericordia di Dio sono delimitate da un tempo determinato, esse allora non sono infinite, e Dio non è infinitamente buono.

13. Dio è sovranamente giusto. La sovrana giustizia non è la più inesorabile giustizia, né quella che lascia ogni colpa impunita; è quella che tiene conto del bene e del male nel modo più rigoroso, che ricompensa l'uno e punisce l'altro nella più equa proporzione, e non si sbaglia mai.

Se, per una colpa temporanea, che è sempre il risultato della natura imperfetta dell'uomo e, spesso, dell'ambiente in cui egli si trova, l'anima potesse essere punita eternamente, senza speranza né di un alleviamento né di perdono, non ci sarebbe allora nessuna proporzione tra l'errore e la punizione: dunque non ci sarebbe giustizia.

Se il colpevole ritorna a Dio, si pente e chiede di riparare al male che ha fatto, si tratta in questo caso di un ritorno al bene, ai buoni sentimenti. Se il castigo è irrevocabile, questo ritorno al bene è senza frutto; e, poiché non si è tenuto conto del bene, questa non è giustizia. Fra gli uomini, il condannato che si ravvede vede commutata la sua pena, a volte anche tolta. Dunque, nella giustizia umana, ci sarebbe più equità che nella giustizia divina!

Se la condanna è irrevocabile, il pentimento è inutile; il colpevole, non avendo niente da sperare dal suo ritorno al bene, persiste nel male. Dimodoché non solo Dio lo condanna a soffrire eternamente, ma a rimanere anche nel male per l'eternità. Ciò non apparterrebbe né alla giustizia né alla bontà.

14. Essendo infinito in tutte le cose, Dio deve conoscere tutto, il passato e il futuro. Egli deve sapere, al momento della creazione di un'anima, se essa fallirà così gravemente da essere eternamente condannata. Se non dovesse saperlo, il Suo sapere non sarebbe infinito, e allora Egli non è Dio. Se lo sapesse, Egli avrebbe creato volontariamente un essere votato, fin dalla sua formazione, a torture senza fine, e allora Egli non è buono.

Se Dio, toccato dal pentimento d'un dannato, può stendere su di lui la Sua misericordia e toglierlo dall'inferno, non vi sarebbero più pene eterne, e il giudizio pronunciato dagli uomini verrebbe revocato.

15. La dottrina delle pene eterne assolute conduce dunque, forzatamente, alla negazione o allo sminuimento di alcuni degli attributi di Dio. Tale dottrina è, di conseguenza, inconciliabile con la perfezione infinita. Da qui si arriva alla seguente conclusione: se Dio è perfetto, la condanna eterna non esiste; se essa esiste, Dio non è perfetto.

16. Si invoca ancora, a sostegno del dogma dell'eternità delle pene il seguente argomento:

"Poiché la ricompensa accordata ai buoni è eterna, essa deve avere come contropartita una punizione eterna. Proporzionare la punizione alla ricompensa è cosa giusta."

Confutazione — Dio creò l'anima con l'intenzione di renderla felice o infelice? Evidentemente, la felicità della creatura deve essere lo scopo della Sua Creazione, altrimenti Dio non sarebbe buono. La creatura raggiunge la felicità attraverso il suo stesso merito; acquisito il merito, essa non può perderne il frutto, altrimenti degenererebbe. L'eternità della felicità è dunque la conseguenza della sua immortalità.

Ma, prima di arrivare alla perfezione, essa deve sostenere delle lotte, deve dar battaglia alle cattive passioni. Non avendola Dio creata perfetta, ma suscettibile di divenirlo, affinché essa abbia il merito delle sue azioni, l'anima può fallire. Le sue cadute sono le conseguenze della sua naturale fragilità. Se, per una caduta, essa dovesse essere punita eternamente, ci si potrebbe chiedere perché Dio non l'ha creata più forte. La punizione che subisce è l'avvertimento che essa ha commesso del male, e deve avere come risultato, quello di ricondurla sulla retta via. Se la pena fosse irremissibile, il suo desiderio di fare meglio sarebbe superfluo; perciò il fine provvidenziale della creazione non potrebbe essere raggiunto, poiché vi sarebbero esseri predestinati alla felicità e altri all'infelicità. Se un'anima colpevole si pente, potrebbe divenire buona; potendo divenire buona, essa può aspirare alla felicità. Dio, rifiutandogliene i mezzi sarebbe giusto?

Essendo il bene lo scopo finale della Creazione, la felicità — che ne è il premio — deve essere eterna; il castigo — che è un mezzo per arrivarvi — deve essere temporaneo. La più comune nozione di giustizia, anche tra gli uomini, dice che non si può punire perpetuamente colui che ha il desiderio e la volontà di agire bene.

17. Un'ultima argomentazione a favore dell'eternità delle pene è il seguente:

"La paura di un castigo eterno è un freno; se lo si toglie, l'uomo, non temendo più nulla, si abbandonerà a ogni trasgressione."

Confutazione — Questo ragionamento sarebbe giusto, se la non-eternità delle pene comportasse la soppressione di ogni sanzione penale. La condizione felice o infelice nella vita futura è una conseguenza rigorosa della giustizia di Dio, poiché un'uguaglianza di situazione tra l'uomo buono e l'uomo perverso sarebbe la negazione di questa giustizia. Ma per il fatto di non essere eterno, non è che il castigo sia meno penoso; inoltre, tanto più lo si teme quanto più vi si crede, e tanto più vi si crede quanto più esso è razionale. Una pena alla quale non si creda non è più un freno, e l'eternità delle pene fa parte di questo caso.

La credenza nelle pene eterne, come già abbiamo detto, ha avuto la sua utilità e la sua ragion d'essere in una certa epoca; al giorno d'oggi, non solo essa non impressiona più, ma genera non credenti. Prima di porla come una necessità, bisognerebbe dimostrarne la realtà. Bisognerebbe, soprattutto, che se ne vedesse l'efficacia su coloro che la preconizzano e si sforzano di dimostrarla. Disgraziatamente, tra di essi, troppi dimostrano con le loro azioni di non esserne affatto spaventati. Se tale credenza è impotente a reprimere il male in quanti dicono di credervi, quale potere può essa avere su coloro che non vi credono?


Impossibilità materiale delle pene eterne


18. Fin qui, il dogma dell'eternità delle pene non è stato combattuto che con il ragionamento; ora lo mostreremo in contraddizione con i fatti positivi che abbiamo sotto gli occhi e ne proveremo l'impossibilità.

Secondo questo dogma, la sorte dell'anima è irrevocabilmente fissata dopo la morte. Ed è dunque, questo, un punto d'arresto definitivo applicato al progresso. Ora, l'anima progredisce sì o no? Sta qui tutta la questione. Se essa progredisce, l'eternità delle pene è impossibile.

Si può forse dubitare di questo progresso, quando si vede l'immensa varietà di attitudini morali e intellettuali che esistono sulla terra, dal selvaggio all'uomo civilizzato? Quando si vedono le differenze che un medesimo popolo presenta da un secolo all'altro? Se si ammette che non sono più le medesime anime, bisogna ammettere, allora, che Dio crea anime a tutti i livelli d'avanzamento, secondo i tempi e i luoghi; ch'Egli favorisce le une, mentre destina le altre a una inferiorità perpetua, cosa che è incompatibile con la giustizia, che deve essere la stessa per tutte le creature.

19. È incontestabile che l'anima, intellettivamente e moralmente arretrata come quella dei popoli barbari, non può possedere i medesimi elementi di felicità, le medesime attitudini a godere degli splendori dell'infinito, dell'anima le cui facoltà sono tutte largamente sviluppate. Dunque, se queste anime non progrediscono, non possono — e nelle condizioni a loro più favorevoli — godere in eterno che di una felicità per così dire negativa. Si arriva, dunque, per forza di cose — per essere d'accordo con una giustizia rigorosa — a questa conclusione: le anime, quelle più avanzate, sono proprio quelle stesse che erano arretrate e che sono progredite. Ma qui tocchiamo la grande questione della pluralità delle esistenze, come unico mezzo razionale per risolvere la difficoltà del problema. Tuttavia, prescindendo da ciò, considereremo l'anima sotto il punto di vista di una esistenza unica.

20. Ecco, come se ne vedono tanti, un giovane di vent'anni, ignorante, dagli istinti viziosi, che nega Dio e la sua anima, che si abbandona al disordine e che commette ogni genere di misfatti. Tuttavia egli si trova in un ambiente favorevole al suo miglioramento; lavora, s'istruisce, a poco a poco si corregge e infine diventa pio. Non è forse questo un esempio palpabile del progresso dell'anima durante la vita? E non se ne vedono forse di simili tutti i giorni? Questo uomo muore santamente in età avanzata, e naturalmente la sua salvezza è assicurata. Ma quale sarebbe stata la sua sorte, se un caso accidentale l'avesse portato alla morte quaranta o cinquant'anni prima? Egli si trovava in tutte quelle condizioni atte a essere dannato; orbene, una volta dannato, ogni progresso si sarebbe arrestato. Ecco, dunque, un uomo che si è salvato perché ha vissuto a lungo, e che, secondo la dottrina delle pene eterne, sarebbe stato perduto per sempre se fosse vissuto meno, cosa che poteva accadere per incidente fortuito. Dal momento che la sua anima ha potuto progredire in un determinato tempo, perché non avrebbe potuto progredire nel medesimo tempo dopo la morte, se una causa indipendente dalla sua volontà gli avesse impedito di farlo durante la vita? Perché Dio gliene avrebbe rifiutato i mezzi? Il pentimento, sia pure tardivo, sarebbe pur sempre venuto a suo tempo. Ma se, dall'istante della sua morte, una condanna irremissibile lo avesse colpito, il suo pentimento sarebbe stato senza frutto per l'eternità e la sua attitudine a progredire sarebbe stata distrutta per sempre.

21. Il dogma dell'eternità assoluta delle pene è dunque inconciliabile con il progresso dell'anima, poiché vi opporrebbe un ostacolo invalicabile. Questi due principi si annullano per forza di cose l'un l'altro; se esiste l'uno, non può esistere l'altro. Quale dei due esiste? La legge del progresso è palese: non è una teoria, questo è un fatto convalidato dall'esperienza; è una legge di natura, una legge divina, imprescrittibile. Dunque, poiché essa esiste e poiché non può conciliarsi con l'altra, vuol dire che l'altra non esiste. Se il dogma dell'eternità delle pene fosse una verità, sant'Agostino, san Paolo e molti altri non avrebbero mai visto il cielo se fossero morti prima del progresso che ha originato la loro conversione.

A quest'ultima asserzione, si risponde che la conversione di questi personaggi santi non è il risultato del progresso dell'anima, ma della grazia che fu loro accordata e dalla quale essi furono toccati.

Ma a questo punto è voler giocare con le parole. Se essi hanno commesso il male e più tardi compiuto il bene, significa che essi sono diventati migliori; essi dunque sono progrediti. Dio avrebbe, perciò, accordato loro, attraverso un favore speciale, la grazia di correggersi? Perché a loro sì e ad altri no? Si tratta sempre della dottrina dei privilegi, incompatibile con la giustizia di Dio e con il Suo amore, eguale per tutte le Sue creature.

Secondo la Dottrina Spiritista, in accordo con le parole stesse del Vangelo, con la logica e con la giustizia più rigorosa, l'uomo è il figlio delle sue opere, durante questa vita e dopo la morte; egli non deve nulla al favore: Dio lo ricompensa dei suoi sforzi e lo punisce per la sua negligenza, per tutto il tempo ch'egli è negligente.


La dottrina delle pene eterne ha fatto il suo tempo


22. La credenza nell'eternità delle pene materiali è rimasta come un salutare timore fin quando gli uomini non sono stati in grado di comprendere la potenza morale. È ciò che succede con i bambini, i quali sono tenuti a bada, per un certo tempo, mediante la minaccia di esseri chimerici, con i quali li si spaventa. Ma arriva un momento in cui la ragione del bambino fa da sé stessa giustizia delle favole con cui si è cullata la sua infanzia; sarebbe perciò assurdo pretendere ora di governarlo con i medesimi mezzi. Se quelli che lo guidano persisteranno nel dire al bambino che quelle favole sono delle verità che bisogna prendere alla lettera, essi perderanno la sua fiducia.

Così è oggi per l'Umanità: è uscita dall'infanzia e si è scrollata di dosso le sue briglie. L'uomo non è più quello strumento passivo che si piegava sotto la forza materiale, né quell'essere ingenuo che accettava tutto, a occhi chiusi.

23. Il credere è un atto dell'intelletto, è per questo che non può essere imposto. Se, durante un certo periodo dell'Umanità, il dogma dell'eternità delle pene ha potuto essere inoffensivo, persino salutare, arriva un momento in cui esso diviene dannoso. Infatti, dal momento in cui lo imponete come verità assoluta, allorché la ragione lo rifiuta, ne risulta necessariamente una di queste due cose: o l'uomo che vuole credere si crea una credenza più razionale — e, in tal caso, si allontana da voi —; oppure non crede più a niente del tutto. È evidente, per chiunque abbia studiato la questione a mente fredda, che ai nostri giorni, il dogma dell'eternità delle pene ha generato più materialisti e atei che tutti i filosofi.

Le idee seguono un corso incessantemente progressivo; non si possono governare gli uomini che seguendo questo corso; volerlo arrestare o farlo retrocedere, o semplicemente restare indietro allorché esso avanza, vuol dire perdersi. Seguire o non seguire questo movimento è una questione di vita o di morte, per le religioni così come per i governanti. È un bene? È un male? Sicuramente è un male agli occhi di quanti, vivendo del passato, vedono questo passato sfuggir loro di mano; per quanti vedono il futuro, è la legge del progresso, che è una legge di Dio, e contro le leggi di Dio ogni resistenza è inutile; lottare contro la Sua volontà è volersi schiantare.

Perché, dunque, volere per forza sostenere una credenza che cade in disuso e che in definitiva fa più male che bene alla religione? Ahimè! È triste doverlo dire, ma qui una questione materiale surclassa la questione religiosa. Questa credenza è stata largamente sfruttata, sostenuta com'era dall'idea secondo cui con il denaro ci si potevano far aprire le porte del cielo, e salvarsi così dall'inferno. Le somme che questa credenza ha apportato e che tuttora apporta sono incalcolabili; è l'imposta prelevata sulla paura dell'eternità. Essendo questa imposta facoltativa, il prodotto è proporzionale alla credenza; se la credenza non esiste più, il prodotto diviene nullo. Il bambino dà volentieri il suo dolce a chi gli promette di scacciare il lupo mannaro; ma quando il bambino non crede più al lupo mannaro, si tiene il suo dolce.

24. La Nuova Rivelazione, dando della vita futura idee più sane e dimostrando che si può realizzare la propria salvezza per mezzo delle proprie opere, deve incontrare una opposizione tanto più viva, in quanto prosciuga una delle più importanti fonti di reddito. Accade così ogni volta che una scoperta o una invenzione viene a cambiare costumi inveterati e prestabiliti. Coloro che vivono degli antichi e costosi procedimenti li loda, mentre denigra quelli nuovi più economici. Per esempio, si crede forse che la stampa, nonostante i servigi che avrebbe reso all'Umanità, sia stata acclamata dalla numerosa categoria dei copisti? No di certo; essi dovettero di sicuro maledirla. È avvenuto così per le macchine, per la ferrovia e per cento altre cose.

Agli occhi dei miscredenti, il dogma dell'eternità delle pene è una questione futile, di cui essi si fanno beffe. Agli occhi del filosofo, esso comporta una gravità sociale, per gli abusi ai quali dà luogo. L'uomo veramente religioso vede quanto la dignità della religione sia interessata alla distruzione di questi abusi e delle loro cose.


Ezechiele contro l'eternità delle pene e il peccato originale


25. A coloro che pretendono di trovare nella Bibbia la giustificazione circa l'eternità delle pene, si possono opporre testi contrari, che non consentono alcuna ambiguità. Le parole di Ezechiele, qui di seguito riportate, sono la più esplicita negazione non solo delle pene irremissibili, ma anche della responsabilità che il peccato del padre del genere umano avrebbe fatto pesare sulla sua razza.

«1. La parola del Signore mi fu rivolta in questi termini:

2. "Perché dite nel paese d'Israele questo proverbio: 'I padri hanno mangiato uva acerba e i denti dei figli si sono allegati?' 3. Com'è vero che io vivo, dice Dio, il Signore, non avrete più occasione di dire questo proverbio in Israele. 4. Ecco, tutte le vite sono mie; è mia tanto la vita del padre quanto quella del figlio; chi pecca morirà.

5. Se uno è giusto e pratica l'equità e la giustizia, 6. se non mangia sui monti e non alza gli occhi verso gli idoli della casa d'Israele, se non contamina la moglie del suo prossimo, se non si accosta a donna mentre è impura, 7. se non opprime nessuno, se restituisce al debitore il suo pegno, se non commette rapine, se dà il pane a chi ha fame e copre di vesti chi è nudo, 8. se non presta a interesse e non dà a usura, se allontana la sua mano dall'iniquità e giudica secondo verità fra uomo e uomo, 9. se segue le mie leggi e osserva le mie prescrizioni agendo con fedeltà, egli è giusto; certamente vivrà, dice Dio, il Signore.

10. Ma se ha generato un figlio che è un violento, che sparge il sangue e fa a suo fratello qualcuna di queste cose 11. (cose che il padre non commette affatto): mangia sui monti, e contamina la moglie del suo prossimo, 12. opprime l'afflitto e il povero, commette rapine, non restituisce il pegno,alza gli occhi verso gli idoli, fa delle abominazioni, 13. presta a interesse e dà a usura, questo figlio vivrà forse? No, non vivrà! Egli ha commesso tutte queste abominazioni, e sarà certamente messo a morte; il suo sangue ricadrà su di lui.

14. Ma se egli ha generato un figlio, il quale, dopo aver visto tutti i peccati che suo padre ha commesso, vi riflette e non fa tali cose: 15. non mangia sui monti, non alza gli occhi verso gli idoli della casa d'Israele, non contamina la moglie del suo prossimo, 16. non opprime nessuno, non prende pegni, non commette rapine, ma dà il suo pane a chi ha fame, copre di vesti chi è nudo, 17. non fa pesare la mano sul povero, non prende interesse né usura, osserva le mie prescrizioni e segue le mie leggi, questo figlio non morrà per l'iniquità del padre; egli certamente vivrà. 18. Suo padre, siccome è stato un oppressore, ha commesso rapine a danno del fratello e ha fatto ciò che non è bene in mezzo al suo popolo, ecco che muore per la sua iniquità.

19. Se voi diceste: 'Perché il figlio non paga per l'iniquità del padre?' Ciò è perché quel figlio pratica l'equità e la giustizia, osserva tutte le mie leggi e le mette a effetto. Certamente egli vivrà. 20. La persona che pecca è quella che morirà, il figlio non pagherà per l'iniquità del padre, e il padre non pagherà per l'iniquità del figlio; la giustizia del giusto sarà sul giusto, l'empietà dell'empio sarà sull'empio. 21. Se l'empio si allontana da tutti i peccati che commetteva, se osserva tutte le mie leggi e pratica l'equità e la giustizia, egli certamente vivrà, non morirà. 22. Nessuna delle trasgressioni che ha commesse sarà più ricordata contro di lui; per la giustizia che pratica, egli vivrà. 23. Io provo forse piacere se l'empio muore? dice Dio, il Signore. Non ne provo piuttosto quando egli si converte dalle sue vie e vive?"» (Ezechiele 18:1-23).

«Dì loro: "Com'è vero che io vivo", dice Dio, il Signore, "io non mi compiaccio della morte dell'empio, ma che l'empio si converta dalla sua via e viva; convertitevi, convertitevi dalle vostre vie malvagie! Perché morireste, o casa d'Israele?"» (Ezechiele 33:11).