PARTE PRIMA - DOTTRINA
Capitolo I - IL FUTURO E IL NULLA
Ogni uomo sperimenta la necessità di vivere, di gioire, di amare, di essere felice. Provate a dire a uno, che sappia di essere sul punto di morire, che vivrà ancora, che la sua ora non è ancora scoccata; ma ditegli, soprattutto, ch'egli sarà più felice di quanto sia mai stato, e il suo cuore allora palpiterà di gioia.
Ma a che servirebbero queste aspirazioni di felicità se un soffio potrebbe farle svanire?
C'è forse qualcosa di più desolante di questo pensiero della distruzione assoluta? Affetti cari, intelligenza, progresso, scienza laboriosamente acquisita, tutto sarebbe annientato, tutto andrebbe perduto! Quale necessità ci sarebbe di sforzarci a divenire migliori, quale necessità ci costringerebbe a reprimere le nostre passioni, ad affaticarci, per elevare il nostro spirito, se non dobbiamo raccoglierne alcun frutto, soprattutto con questo pensiero per cui domani, forse, ciò non servirà più a niente? Se così fosse, la sorte dell'uomo sarebbe cento volte peggiore di quella del bruto, perché il bruto vive completamente nel presente, nella soddisfazione dei suoi appetiti materiali, senza alcuna aspirazione per il futuro. Una segreta intuizione ci dice però che ciò non è possibile.
Se il rispetto umano ne trattiene alcuni, quale freno possono avere coloro che non temono nulla? Costoro dichiarano che le leggi umane non riguardano che gli inetti; è per questo che impiegano tutto il loro ingegno nel mezzo migliore per eluderle. Se c'è una dottrina insana e antisociale, di sicuro è quella del nichilismo, perché rompe i veri legami della solidarietà e della fraternità, su cui si fondano i rapporti sociali.
Si impegnerà per il suo miglioramento, per la sua istruzione? Si affaticherà per vivere? Rispetterà i diritti, i beni, la vita dei suoi simili? Si sottometterà alle leggi, a un'autorità, qual si voglia, anche la più legittima, cioè all'autorità paterna? Ci sarà per lui un qualsiasi dovere? Certamente no.
Ebbene, ciò che non accade in massa, viene realizzato dalla dottrina del nichilismo, ogni giorno, isolatamente, individualmente. E se le conseguenze non sono poi così disastrose come potrebbero esserlo, è in primo luogo perché, nella maggior parte dei non credenti, c'è più millanteria che vera e propria miscredenza, più dubbio che convinzione; e perché essi hanno paura del niente più di quanto non vogliano far sembrare: l'appellativo di spirito forte lusinga il loro amor proprio; in secondo luogo, perché i non credenti assoluti sono in grandissima minoranza; essi subiscono, loro malgrado, l'influenza dell'opinione contraria e sono sostenuti da una forza materiale. Ma qualora la miscredenza assoluta diventasse un giorno l'opinione della maggioranza, la società entrerebbe in dissoluzione. È a questo che tende la diffusione della dottrina del nichilismo. [1]
Quali che siano le conseguenze, qualora il nichilismo s'imponesse come una verità, bisognerebbe accettarlo. E né i sistemi contrari né il pensiero del male che ne conseguirebbe potrebbero ostacolarne l'esistenza. Ora, non bisogna nasconderci che lo scetticismo, il dubbio e l'indifferenza guadagnano terreno ogni giorno, nonostante gli sforzi della religione; ma questo è positivo. Se la religione si dimostra impotente nei confronti della miscredenza, è perché le manca qualcosa per combatterla, dimodoché se essa si condannasse all'immobilità, in un determinato momento si troverebbe infallibilmente sopraffatta. Ciò che le manca in questo secolo di positivismo, in cui si cerca di comprendere prima di credere, è senza dubbio la convalida delle sue dottrine attraverso fatti positivi; e così pure la concordanza di certe dottrine con i dati positivi della Scienza. Se essa dice bianco e se i fatti dicono nero, bisogna optare tra l'evidenza e la fede cieca.
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[1] Un giovane di diciotto anni era affetto da una malattia cardiaca dichiarata incurabile. La Scienza aveva così sentenziato: "Egli potrebbe morire entro otto giorni, come entro due anni, ma non andrà oltre". Il giovane venne a conoscenza di ciò. Subito abbandona gli studi e si dà a eccessi d'ogni genere. Allorché gli si fa presente come una vita di disordini sia pericolosa nelle sue condizioni, egli risponde: "Che m'importa, dal momento che non ho che due anni da vivere? A che mi servirebbe affaticare l'animo con le rinunce? Godo del poco tempo che mi resta e cerco di divertirmi fino all'ultimo". Ecco la conseguenza del nichilismo.
Se questo giovane fosse stato spiritista, avrebbe detto: "La morte distruggerà solo il mio corpo, che io lascerò come un abito usato, ma il mio Spirito vivrà sempre. Io sarò, nella mia vita futura, ciò che avrei fatto di me stesso in questa vita. Niente di quello che in essa potrei acquisire riguardo a qualità morali e intellettuali andrà perduto, perché ciò sarà tanto di guadagnato per il mio avanzamento; ogni imperfezione di cui mi libererò sarà un passo in più verso la felicità. La mia felicità o infelici a venire dipendono dall'utilità o dall'inutilità della mia presente esistenza. È dunque mio interesse mettere a profitto il poco tempo che mi resta ed evitare tutto ciò che potrebbe diminuire le mie forze".
Quale di queste due dottrine è preferibile?
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Ognuno è senza dubbio libero nella scelta delle sue credenze, libero di credere in qualcosa o di non credere in nulla. Ma coloro che cercano di far prevalere nello spirito delle masse, della gioventù soprattutto, la negazione del futuro, ricorrendo all'autorità del loro sapere e all'influenza della loro posizione, seminano nella società germi di perturbazione e di dissoluzione, incorrendo in una grande responsabilità.
Questa dottrina è senza dubbio un passo avanti sul materialismo puro, poiché qualcosa ammette, mentre l'altra non ammette nulla. Ma le conseguenze sono esattamente le stesse. Che l'uomo sia immerso nel nulla o nel serbatoio comune, è per lui la medesima cosa; se nel primo caso egli è annichilito, nel secondo egli perde la sua individualità; è, perciò, come se non esistesse; non per questo i rapporti sociali cessano di rompersi, e per sempre.
L'essenziale, per lui, è la conservazione del suo io; senza ciò, che gli importa di essere o non essere? Il futuro gli si presenta sempre nullo; è la vita presente la sola cosa che gli interessi e lo preoccupi. Dal punto di vista delle conseguenze morali, poi, questa dottrina è così insensata, così disperante che istiga all'egoismo tanto quanto il materialismo propriamente detto.
L'educazione, senza alcun dubbio, modifica le qualità intellettuali e morali dell'anima; ma qui si presenta un'altra difficoltà. Chi dà all'anima l'educazione per farla progredire? Altre anime che, per la loro comune origine, non devono più essere migliorate. Oltre a ciò l'anima, rientrando nel Tutto Universale da cui era sortita, dopo aver progredito durante la vita, vi apporta un elemento più perfetto. Da ciò consegue che questo Tutto deve, a lungo andare, trovarsi profondamente modificato e migliorato. Come accade allora che da questo Tutto escano incessantemente delle anime ignoranti e perverse?
Se la logica ci conduce all'individualità dell'anima, essa ci conduce anche a quest'altra conseguenza: che la sorte di ogni anima, cioè, deve dipendere dalle sue qualità personali. Sarebbe infatti irrazionale ammettere che l'anima sottosviluppata del selvaggio o quella dell'uomo perverso fossero al medesimo livello di quella del saggio o dell'uomo dabbene. Secondo i principi della giustizia, le anime devono avere la responsabilità dei loro atti; ma, perché esse siano responsabili, è necessario che siano libere di scegliere trai l bene e il male. Sanza libero arbitrio, ci sarebbe fatalità, e con la fatalità non potrebbe esserci la responsabilità.
L'uomo vuole sapere da dove viene e dove va. Se gli si indica un fine che non risponde né alle sue aspirazioni né all'idea ch'egli si è fatta di Dio, né ai dati positivi che gli fornisce la Scienza; se, inoltre, gli si impongono, per raggiungere quel fine, delle condizioni di cui la sua ragione non gli mostra l'utilità, egli allora respinge tutto. Il materialismo e il panteismo gli sembrano più razionali, perché qui si discute e si ragiona; si ragiona falsamente, è vero, ma egli preferisce ragionare falsamente piuttosto che non ragionare affatto.
Ma qualora gli si indichi un futuro dalle condizioni logiche, del tutto degno della grandezza, della giustizia e dell'infinita bontà di Dio, allora egli abbandonerà il materialismo e il panteismo, di cui avverte il vuoto nel proprio intimo e che aveva accettato solo in mancanza di una migliore credenza. Lo Spiritismo dà qualcosa di meglio, ed è per questo che è accolto con sollecitudine da tutti coloro che sono tormentati dall'incertezza bruciante del dubbio, e che non trovano né nelle credenze né nelle filosofie ordinarie ciò che cercano. Lo Spiritismo ha per l'uomo la logica del ragionamento e la conferma dei fatti. È per questo che lo si è inutilmente combattuto.
Capitolo II - PAURA DELLA MORTE
Cause della paura della morte
È per questo che, presso i popoli primitivi, il futuro non è che una vaga intuizione, più tardi una semplice speranza, ancor più tardi, infine, una certezza, ma ancora controbilanciata da un segreto attaccamento alla vita corporea.
Attaccandosi alle apparenze, l'uomo non vede la vita che nel suo corpo, mentre la vita reale è nell'anima. Quando il corpo viene privato della vita, ai suoi occhi tutto è perduto, ed egli se ne dispera. Se, invece di concentrare il suo pensiero sul rivestimento esteriore, egli lo spostasse sull'origine stessa della vita, sull'anima che è l'essere reale che sopravvive a tutto, egli rimpiangerebbe meno il corpo, fonte di miserie e dolori. Ma, per questo, è necessaria una forza che lo Spirito non acquisisce che con la maturità.
La paura della morte nasce dunque dall'insufficienza delle nozioni sulla vita futura. Ma essa denota il bisogno di vivere e la paura che la distruzione del corpo non sia la fine di tutto. La paura è anche provocata dal segreto desiderio della sopravvivenza dell'anima, ancora offuscato dall'incertezza.
La paura si affievolisce nella misura in cui aumenta la certezza e scompare quando la certezza è completa.
Ecco il lato provvidenziale della questione. Sarebbe saggio, però, non abbagliare l'uomo la cui ragione non fosse ancora abbastanza forte da sopportare la prospettiva troppo positiva e seducente di un futuro che gli potesse far trascurare il presente, necessario al suo avanzamento materiale e intellettuale.
"E poi — aggiungono — che cos'è, in definitiva, questa anima? Un punto, un atomo, una scintilla, una fiamma? Come la si sente? Come la si vede? Come la si percepisce?" L'anima per loro non è affatto una realtà effettiva: è un'astrazione. Gli esseri che sono loro cari, ridotti nel loro pensiero allo stato di atomi, sono per essi come perduti e non hanno più ai loro occhi quelle qualità per le quali si erano resi amabili. Essi non comprendono né l'amore di una scintilla, né quello che si può provare per lei, ed essi stessi sono mediocremente soddisfatti d'essere trasformati in monadi. Da qui il ritorno al positivismo della vita terrena, che possiede qualcosa di più sostanziale Considerevole è il numero di coloro che sono dominati da questo pensiero.
Il quadro che della vita futura fa la religione — bisogna convenirne — non è né particolarmente seducente né particolarmente consolante. Da un lato, vi si vedono le contorsioni dei dannati che espiano in torture e fiamme senza fine i loro errori di un istante. Per costoro i secoli si succedono ai secoli, senza la speranza né di un'attenuazione delle pene né di alcuna pietà; e, cosa che è ancora più atroce, per costoro il patimento è senza efficacia. Dall'altro lato, le anime languenti e sofferenti del purgatorio attendono la loro liberazione attraverso il buon cuore dei vivi, che pregheranno o faranno pregare per loro, e non attraverso i loro stessi sforzi, per il proprio progresso. Queste due categorie compongono l'immensa maggioranza della popolazione dell'altro mondo. Al disopra si libra quella moltitudine molto limitata degli eletti, che godono per l'eternità d'una beatitudine contemplativa. Questa eterna inutilità, preferibile senza dubbio al nulla, non è da meno di una fastidiosa monotonia. Così, nei dipinti che ritraggono i beati, si vedono delle figure angeliche che respirano, però, la noia piuttosto che la vera felicità.
Questo stato non soddisfa né le aspirazioni né l'idea istintiva del progresso, che appare il solo compatibile con la felicità assoluta. Si fa fatica a credere che il selvaggio ignorante, refrattario al senso morale, si trovi, per il solo fatto d'aver ricevuto il battesimo, allo stesso livello di colui che è pervenuto al più alto grado della scienza e della morale pratica, dopo lunghi anni di lavoro. Ed è ancor meno concepibile che il bambino morto in tenera età, prima cioè di avere coscienza di sé stesso e dei suoi atti, goda dei medesimi privilegi, per il solo fatto di una cerimonia alla quale la sua volontà non ha alcuna parte. Questi ragionamenti non cessano di agitare i più ferventi, per poco che essi possano rifletterci.
Di certo, tale non è il pensiero di tutti, poiché ci sono grandi e belle eccezioni. Ma non ci si può nascondere che non sia questo il caso del maggior numero, soprattutto delle masse poco illuminate. Inoltre, l'idea che ci si fa delle condizioni per essere felici nell'altro mondo non contempla l'attaccamento ai beni di questo mondo e, di conseguenza, non contempla l'egoismo.
Tutto ciò interpone tra i morti e i vivi una distanza tale che si guarda alla separazione come se fosse eterna. Ed è per questo che si preferisce avere ancora presso di sé gli esseri che si amano, anche se sulla Terra soffrono, piuttosto che vederli partire, sia pure alla volta del cielo. Inoltre, l'anima che è in cielo è realmente felice di vedere, per esempio, suo figlio, suo padre, sua madre o i suoi amici bruciare eternamente?
Perché gli spiritisti non temono la morte
Per gli spiritisti l'anima non è più un'astrazione; essa ha un corpo etereo che fa di essa un essere ben definito, che il pensiero accetta e comprende; il che è già molto per fissare le idee sulla sua individualità, sulle sue attitudini e le sue percezioni. Il ricordo di coloro che ci sono cari riposa su qualcosa di reale. Non ce li rappresentiamo più come fuggevoli fiamme che nulla dicono al nostro pensiero, ma sotto una forma concreta, che ce li mostra ancor meglio degli esseri viventi. Inoltre, invece di essere sperduti nelle profondità dello Spazio, essi sono intorno a noi; il mondo corporeo e il mondo spirituale sono in perpetui rapporti e si assistono mutuamente. Poiché il dubbio sul futuro non è più permesso, il timore della morte non ha più ragion d'essere. La si vede arrivare a sangue freddo, come una liberazione, come la porta della vita e non quella del nulla.
Capitolo III - IL CIELO
Questa idea, che era conforme alla insufficienza di cognizioni astronomiche, fu quella di tutte le teogonie che fecero dei cieli, così scaglionati, i diversi gradi della beatitudine; l'ultimo era la dimora della suprema felicità. Secondo l'opinione comune ce n'erano sette; da qui l'espressione essere al settimo cielo, per esprimere una perfetta felicità. I Musulmani ne ammettono nove, in ognuno dei quali la felicità dei credenti si accresce. L'astronomo Tolomeo [1] ne contava undici, l'ultimo dei quali era chiamato Empireo, [2] a causa della luce splendente che vi regna. Questo è ancor oggi il nome poetico dato al luogo della gloria eterna. La teologia cristiana riconosce tre cieli: il primo è quello della regione dell'aria e delle nuvole; il secondo è quello dove si muovono gli astri; il terzo, al di là della regione degli astri, è la dimora dell'Altissimo, la dimora degli eletti, che contemplano Dio faccia a faccia. È secondo questa credenza che si narra che san Paolo fu elevato al terzo cielo.
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[1] Tolomeo visse ad Alessandria, in Egitto, nel secondo secolo dell'Era Cristiana.
[2] Empireo, dal greco pŷr, fuoco.
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Lo Spiritismo viene a risolverla dimostrando il vero destino dell'uomo. Presi come punto di partenza la natura di quest'ultimo egli attributi di Dio, si arriva alla conclusione; vale a dire che partendo dal conosciuto si arriva allo sconosciuto attraverso una deduzione logica, senza parlare delle osservazioni dirette che lo Spiritismo permette di fare.
Esistono, pertanto, due mondi: quello corporeo, composto dagli Spiriti incarnati, e quello spirituale composto dagli Spiriti disincarnati. Gli esseri del mondo corporeo, per il fatto stesso di avere un involucro materiale, sono attaccati alla Terra o a un qualsiasi globo; il mondo spirituale è dappertutto, intorno a noi e nello Spazio; nessun limite è a esso assegnato. In ragione della natura fluidica del loro involucro, gli esseri che lo compongono, invece di trascinarsi penosamente sul suolo, superano le distanze con la rapidità del pensiero. La morte del corpo non è che la rottura dei lacci che lo tengono prigioniero.
Un comune paragone farà ancor meglio comprendere questa situazione. Poniamo che in un concerto si trovino due individui, l'uno buon musicista dall'orecchio esercitato, l'altro senza alcuna conoscenza della musica e dall'udito poco delicato. Il primo prova una sensazione di felicità, mentre il secondo resta insensibile, perché l'uno comprende e percepisce ciò che, invece, non fa alcuna impressione sull'altro. Così avviene per tutte le gioie degli Spiriti, le quali sono proporzionate alla capacità che ognuno ha di percepirle. Il mondo spirituale possiede dappertutto splendori, armonie e sensazioni che gli Spiriti inferiori, ancora sottoposti alla influenza della materia, non intravedono neppure, e che sono accessibili solo agli Spiriti purificati
La suprema felicità è appannaggio solo degli Spiriti perfetti, altrimenti detti puri Spiriti. Essi non la ottengono se non dopo aver progredito in intelligenza e in moralità. Il progresso intellettuale e il progresso morale raramente marciano fianco a fianco; ma quanto lo Spirito non ottiene in un determinato tempo, l'otterrà in un altro, di modo che i due progressi finiranno per raggiungere il medesimo livello. Questa è la ragione per cui si vedono spesso individui intelligenti e colti molto poco avanzati moralmente, e viceversa.
In ogni nuova esistenza, lo Spirito apporta ciò che ha acquisito, nelle esistenze precedenti, in attitudini, in conoscenze intuitive, in intelligenza e in moralità. Ogni esistenza si trova così a essere un passo avanti sulla via del progresso (vedere cap. I, n. 3, nota n. 1).
L'incarnazione è inerente alla inferiorità degli Spiriti; essa non è più necessaria a coloro che ne hanno superato il limite, che progrediscono nello stato spirituale, o nelle esistenze corporee dei mondi superiori, e che nulla hanno più della materialità terrena. Da parte di questi, l'incarnazione è volontaria, avendo lo scopo di esercitare sugli incarnati un'azione più diretta e tendendo alla realizzazione della missione di cui essi sono incaricati, accanto a loro. Così, con abnegazione, gli Spiriti ne accettano le vicissitudini e le sofferenze.
Lo Spirito progredisce egualmente nell'erraticità. Egli vi attinge conoscenze speciali che modificano le sue idee e che egli non potrebbe acquisire sulla Terra. Lo stato corporeo e lo stato spirituale sono per lui l'origine di due tipi di progresso correlati l'uno con l'altro; è per questo che passa, alternativamente, nelle esistenze peculiari a ciascuno dei due mondi.
La vita nei mondi superiori è già una ricompensa, perché qui si è preservati dalle vicissitudini e dai mali ai quali si è esposti sulla Terra. I corpi meno materiali, quasi fluidici, non sono qui soggetti né alle malattie né alle infermità né alle stesse necessità. Essendone i cattivi Spiriti esclusi, gli uomini qui vivono in pace, senza altra preoccupazione che quella del loro avanzamento, per mezzo del lavoro intellettuale. Nei mondi superiori regna la vera fraternità, perché non c'è egoismo; la vera uguaglianza, perché non c'è orgoglio; la vera libertà, perché non ci sono né disordini da reprimere, né ambiziosi che cercano di opprimere il debole. Paragonati alla Terra, questi mondi sono dei veri paradisi; e sono le tappe del cammino del progresso che conduce allo stato definitivo. Essendo la Terra un mondo inferiore destinato alla purificazione degli Spiriti imperfetti, è questa la ragione per cui il male vi domina finché piacerà a Dio farne la dimora di Spiriti più avanzati.
È così che lo Spirito, progredendo gradualmente nella misura in cui si sviluppa, giunge all'apogeo della felicità. Ma, prima d'aver raggiunto il punto culminante della perfezione, egli gode di una felicità relativa al suo avanzamento, così come il bimbo gioisce dei piaceri della prima età, più tardi di quelli della giovinezza e, finalmente, di quelli più concreti dell'età matura.
Così si stabilisce la solidarietà tra il mondo spirituale e il mondo corporeo, in altre parole, tra gli uomini e gli Spiriti, tra gli Spiriti liberi e gli Spiriti prigionieri. Così si perpetuano e si consolidano, attraverso la purificazione e la continuità dei rapporti, le vere simpatie e i nobili affetti.
Dappertutto, dunque, movimento e vita. Non un angolo dell'infinito che non sia popolato; non una regione che non sia incessantemente percorsa da innumerevoli legioni di esseri radiosi, invisibili per i rozzi sensi degli incarnati, ma la cui vista riempie di ammirazione e di gioia le anime liberatesi dalla materia. Dappertutto, infine, c'è una felicità relativa a tutti i progressi, a tutti i doveri compiuti; ciascuno racchiude in sé gli elementi della sua felicità, in ragione della categoria in cui lo colloca il suo grado d'avanzamento.
La felicità attiene alle qualità stesse degli individui, e non allo stato materiale dell'ambiente in cui essi si trovano. La felicità è perciò ovunque ci siano degli Spiriti capaci d'essere felici; nessun posto delimitato le è assegnato nell'Universo. In qualsiasi luogo si trovino, i puri Spiriti possono contemplare la maestà divina, perché Dio è dappertutto.
La Terra è ancora uno di questi ultimi. Ogni globo ha, dunque, praticamente una sua propria popolazione in Spiriti incarnati e disincarnati, che si alimenta, per la maggior parte, attraverso l'incarnazione e la disincarnazione degli Spiriti stessi. Questa popolazione è più stabile nei mondi inferiori dove gli Spiriti sono più attaccati alla materia, ed è più fluttuante nei mondi superiori. Ma da questi mondi, veri centri di luce e di felicità, si distaccano degli Spiriti che vanno verso i mondi inferiori, per seminarvi i germi del progresso, per portarvi la consolazione e la speranza, per risollevare gli animi abbattuti dalle prove della vita. Talvolta vi si incarnano per compiere la loro missione con maggior efficacia.
Di fronte a questo quadro grandioso, che popola tutti gli angoli dell'Universo, che dà a tutte le cose della Creazione un fine e una ragion d'essere, come piccola e meschina è la dottrina che circoscrive l'Umanità su un punto impercettibile dello Spazio, che ce la mostra come se iniziasse a un determinato istante per finire egualmente un giorno insieme al mondo che la contiene, non abbracciando così che un minuto nell'eternità! Come questa dottrina è triste, fredda e glaciale, quando ci descrive il resto dell'Universo prima, durante e dopo l'Umanità terrestre, senza vita, senza movimento, come un immenso deserto immerso nel silenzio! Come questa dottrina è deprimente, con il ritratto ch'essa fa dell'esiguo numero degli eletti votati alla contemplazione perpetua, mentre la maggior parte delle creature è condannata a sofferenze senza fine! Come essa è, per i cuori sensibili, lacerante con l'idea di questa barriera ch'essa pone tra i morti e i vivi! Le anime felici, dicono, non pensano che alle loro felicità; quelle che sono infelici alle loro sofferenze. E c'è forse da stupirsi se l'egoismo regna sulla Terra, quando lo si mostra già nel Cielo? Quanto è allora gretta l'idea che questa dottrina dà della grandezza, della potenza e della bontà di Dio!
Quanto è sublime, al contrario, quella che ne dà lo Spiritismo! Quanto la sua dottrina approfondisce le idee, quanto amplia la mente! Ma chi dice che essa è vera? La Ragione prima di tutto, la Rivelazione in seguito, e poi la sua concordanza con i progressi della Scienza. Tra due dottrine, delle quali l'una sminuisce e l'altra esalta gli attributi di Dio, delle quali l'una resta indietro e l'altra marcia in avanti, il buon senso dice da quale parte sta la verità. Che di fronte alle due ciascuno nel suo intimo interroghi le sue aspirazioni, e una voce interiore gli risponderà. Le aspirazioni sono la voce di Dio, e Dio non può ingannare gli uomini.
Prima che la Scienza rivelasse agli uomini le forze vive della Natura, la costituzione degli astri, il vero molo e la formazione della Terra, avrebbero potuto essi comprendere l'immensità dello Spazio e la pluralità dei mondi? Prima che la Geologia comprovasse la formazione della Terra, avrebbero gli uomini potuto far sloggiare l'inferno dal loro animo, e comprendere il senso allegorico dei sei giorni della Creazione? Prima che l'Astronomia avesse scoperto le leggi che reggono l'Universo, avrebbero essi potuto comprendere che non esiste né alto né basso nello Spazio, che il cielo non sta al disopra delle nuvole né è limitato dalle stelle? Prima dei progressi della scienza psicologica, avrebbero essi potuto identificarsi con la vita spirituale? Avrebbero essi potuto concepire, dopo la morte, una vita felice o infelice, anziché in un luogo circoscritto e sotto una forma materiale? No. Comprendendo più attraverso i sensi che attraverso il pensiero, l'Universo era troppo vasto per la loro mente. Bisognava ridurlo a delle proporzioni meno estese, per sottoporlo al loro punto di vista, per estenderlo più tardi. Una rivelazione parziale aveva la sua utilità; essa era saggia allora, così come è insufficiente al giorno d'oggi. Il torto è di coloro che, non tenendo affatto conto del progresso delle idee, credono di poter governare degli uomini intellettivamente maturi con le briglie dell'infanzia (vedere Il Vangelo secondo lo Spiritismo, cap. III).
Capitolo IV - L'INFERNO
Intuizione delle pene future
L'uomo tanto è dominato dalla materia che non può comprendere la spiritualità se non imperfettamente, ed è per questo che delle pene e delle gioie future si fa un quadro più materiale che spirituale. Egli immagina che nell'altro mondo si debba mangiare e bere, ma meglio che sulla Terra, e cose più buone. [1] Solo più tardi, nelle credenze che riguardano la vita futura, s'incontra un misto di spiritualismo e materialismo; è così che accanto alla beatitudine contemplativa si colloca un inferno con delle torture fisiche.
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[1] Un fanciullo della Savoia, a cui il suo parroco stava facendo un quadro allettante della vita futura, domandò se tutti là avrebbero mangiato pane bianco come mangiavano i Parigini.
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L'inferno cristiano a imitazione dell'inferno pagano
Era di fuoco la ruota di Issione, re dei Lapiti, condannato nell'inferno a girare senza posa, legato a essa con serpi. Narra la leggenda che, dopo aver ucciso il suocero, purificatosi, fu ospitato nell'Olimpo da Zeus. Ma nell'Olimpo tradì Zeus tentando di approfittare della moglie Era.
Il macigno di Sisifo fa riferimento alla leggenda, nota come "Il supplizio di Sisifo", secondo la quale Sisifo, figlio di Eolo, è condannato nell'oltretomba a spingere eternamente sulla cima di un monte un masso che rotola continuamente giù.
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[2] Sermone tenuto a Montpellier nel 1860.
[3] "I beati, senza abbandonare il posto ch'essi occupano, potranno tuttavia allontanarsene in una certa maniera, in ragione del loro dono d'intelligenza e di vista distinta, al fine di considerare le torture dei dannati. E, vedendole, non solo essi non ne proveranno alcun dolore, ma ne saranno colmi di gioia e renderanno grazie a Dio per la loro stessa felicità, assistendo all'ineffabile disgrazia degli empi." (san Tommaso d'Aquino)
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[4] Sermone tenuto a Parigi nel 1861.
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L'inferno dei pagani racchiudeva da un lato gli Champs Elysèes e dall'altro il Tartaro; l'Olimpo, dimora degli dei e degli uomini divinizzati, si trovava nelle regioni superiori. Secondo la lettera del Vangelo, Gesù discese agli inferi, vale a dire nei luoghi bassi, per trarne le anime dei giusti che attendevano la Sua venuta. Gli inferni non erano dunque soltanto un luogo di supplizio; come presso i pagani, essi si trovavano anche nei luoghi bassi. Così come l'Olimpo, la dimora degli angeli e dei santi, si trovava nei luoghi elevati; e lo si era collocato al di là del cielo stellare, che era creduto limitato.
Ecco come le idee sull'inferno pagano si sono perpetuate giungendo fino ai nostri giorni. È stata necessaria la diffusione dei lumi dei tempi moderni e lo sviluppo generale dell'intelligenza umana per farne giustizia. Siccome, però, a quei preconcetti non era stato sostituito niente di positivo, al lungo periodo d'una cieca credenza, è succeduto, come transizione, il periodo della miscredenza, al quale porrà termine la Nuova Rivelazione.
Era necessario distruggere prima di ricostruire, dal momento che è più facile far accettare delle idee giuste a quelli che non credono in niente — poiché sentono che manca loro qualcosa —, piuttosto che a quelli che hanno una salda fede in ciò che è assurdo.
Se ci sono due regni, quello degli eletti e quello dei reprobi, non si possono ammettere più gerarchie in ciascuno di essi senza ammettere la possibilità di superarle e ammettere, di conseguenza, il progresso. Orbene, se c'è un progresso, non c'è una sorte definitiva; se c'è una sorte definitiva, non c'è progresso. Gesù risolse la questione quando disse: "Ci sono molte dimore nella casa di mio Padre". [5]
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[5] Il Vangelo Secondo lo Spiritismo, cap. III.
I limbi
Quadro dell'inferno pagano
Telemaco, toccato da questo spettacolo, gli chiede: "Eravate veramente felice durante il vostro regno? Sentivate quella dolce pace senza la quale il cuore si trova sempre oppresso e abbattuto in mezzo ai piaceri?" "No — risponde il Babilonese —, io non so neppure che cosa intendiate dire. I saggi, vantano questa pace come se fosse l'unico bene: per quanto mi riguarda, io non l'ho mai sentita; il mio cuore era agitato continuamente da nuovi desideri, dal timore e dalla speranza. Io cercavo di stordirmi con lo sconvolgimento delle mie passioni; mi preoccupavo di trattenere questa ebbrezza per renderla continua: il minimo intervallo di calma e di ragione mi sarebbe stato troppo amaro. Ecco la pace di cui ho goduto; ogni altra mi sarebbe sembrata una favola, un sogno; ecco i beni che rimpiango".
Così parlando, il Babilonese piangeva come un vigliacco, infiacchito dalla prosperità e per nulla avvezzo a sopportare con forza d'animo una disgrazia. Egli aveva accanto a sé alcuni schiavi che erano stati fatti morire per onorare i suoi funerali. Mercurio li aveva affidati a Caronte con il loro re e aveva dato loro un potere assoluto su questo re che essi avevano servito sulla Terra. Queste ombre di schiavi non temevano più l'ombra di Nabofarzan; esse la tenevano incatenata, infliggendole gli affronti più crudeli. Le diceva una: "Non eravamo noi forse uomini uguali a te? Come hai potuto essere così insensato da crederti un dio? Non dovevi forse ricordarti che appartenevi alla razza degli altri uomini?" Gli diceva un'altra ombra per insultarlo: "Ma avevi ragione a non volere che ti si prendesse per un uomo, perché tu eri un mostro senza umanità". Un'altra ancora gli diceva: "Ebbene, dove sono ora i tuoi tirapiedi? Non hai più niente da dare, disgraziato! Non puoi fare più alcun male; eccoti divenuto schiavo dei tuoi stessi schiavi! Sono lenti gli dei a far giustizia, ma alla fine la fanno".
A queste dure parole, Nabofarzan si buttava faccia a terra, strappandosi i capelli in un accesso di rabbia e di disperazione. Ma Caronte diceva agli schiavi: "Trascinatelo con la sua catena. Rimettetelo in piedi a tutti i costi. Egli non avrà neppure la consolazione di nascondere la sua vergogna. Bisogna che tutte le ombre dello Stige ne siano testimoni, per giustificare gli dei, i quali hanno tollerato per così lungo tempo che questo empio regnasse sulla Terra".
Egli vide subito, molto vicino a sé, il nero Tartaro. Da esso esalava un fumo nero e denso, il cui odore mefitico avrebbe dato la morte se si fosse diffuso nelle dimore dei viventi. Questo fumo avvolgeva un fiume di fuoco e vortici di fiamme, il cui rumore, simile a quello dei torrenti più impetuosi quando si gettano dalle rocce più alte nei profondi abissi, faceva sì che non si potesse intendere distintamente nulla in quei tristi luoghi.
Telemaco, segretamente incoraggiato da Minerva, entrò senza timore in questo baratro. Si accorse per prima cosa di un grande numero di uomini che avevano vissuto nelle più umili condizioni, e che venivano puniti per essersi procurati il denaro con frodi, tradimenti e crudeltà. Lì notò molti empi ipocriti i quali, fingendo di amare la religione, se ne erano serviti come di un bel pretesto per soddisfare la loro ambizione e divertirsi alle spalle degli uomini creduloni. Questi uomini che avevano abusato della Virtù stessa — quantunque essa sia il più grande dono degli dei — venivano puniti come i più scellerati di tutti gli uomini. I figli che avevano sgozzato i loro padri e le loro madri, le spose che avevano le mani intrise del sangue dei loro mariti, gli infedeli che avevano tradito la loro patria, dopo aver violato ogni giuramento, tutti costoro soffrivano pene meno crudeli di quegli ipocriti. I tre giudici degli inferni avevano così voluto, ed eccone le ragioni: accade che questi ipocriti non si accontentano di essere malvagi come il resto degli empi; essi vogliono, per di più, passare per buoni e fanno sì, con la loro falsa virtù che gli uomini non osino più fidarsi della verità. Gli dei, di cui essi si sono beffati, rendendoli spregevoli agli occhi degli uomini, godono nell'impiegare tutta la loro potenza per vendicarsi dei loro oltraggi.
Dopo costoro compaiono altri uomini, che comunemente non sono quasi ritenuti colpevoli, ma che la vendetta divina perseguita spietatamente: sono gli ingrati, i mentitori, gli adulatori che hanno lodato il vizio; i critici perversi che hanno cercato di macchiare la più pura delle virtù; e, infine, coloro che hanno giudicato temerariamente cose che non conoscevano a fondo, e che, di conseguenza, hanno nociuto alla reputazione degli innocenti.
Telemaco, vedendo i tre giudici, che erano seduti e che stavano condannando un uomo, osò domandare loro quali fossero i suoi crimini. Immediatamente il condannato, prendendo la parola gridò: "Io non ho mai fatto alcun male; io ho profusa tutta la mia gioia nel fare il bene; io sono stato generoso, liberale, giusto, sensibile. Di che cosa dunque mi si può rimproverare?" "Niente ti si rimprovera nei riguardi degli uomini; ma tu a questi non dovevi meno che agli dei? Qual è dunque questa giustizia di cui ti fai vanto? Tu non hai mancato ad alcun dovere verso gli uomini, che nulla sono; tu sei stato virtuoso, ma hai rapportato ogni tua virtù a te stesso e non agli dei che te l'avevano data. Infatti tu volevi gioire del frutto della tua stessa virtù e chiuderti in te stesso: tu sei stato la tua divinità. Ma gli dei, che hanno fatto tutto, e che non l'hanno fatto che per sé stessi, non possono rinunciare ai loro diritti. Tu hai dimenticato loro, ed essi dimenticheranno te. E poiché tu hai voluto appartenere a te stesso e non a loro, essi ti abbandoneranno a te stesso. Se ti riesce, dunque, cerca ora la tua consolazione nel tuo stesso cuore. Eccoti per sempre separato dagli uomini ai quali tu hai voluto piacere; eccoti solo con te stesso, tu che eri il tuo idolo. Sappi che non c'è vera virtù senza il rispetto e l'amore per gli dei, ai quali tutto è dovuto. La tua falsa virtù, che per lungo tempo ha abbagliato gli uomini, quelli facili da ingannare, sta per essere umiliata. Gli uomini, giudicando vizi e virtù solo per quanto loro disturba o conviene, sono ciechi sia per quanto riguarda il bene sia per quanto riguarda il male. Qui, una luce divina rovescia tutti i loro superficiali giudizi; spesso condanna ciò ch'essi ammirano e giustifica ciò che essi condannano".
A tali parole, questo filosofo, come colpito da un fulmine, non riusciva più a sopportarsi. Il compiacimento, ch'egli aveva provato le altre volte nel contemplare la sua moderazione, il suo coraggio e le sue inclinazioni generose, si tramuta in disperazione. La visione del suo stesso cuore, nemico degli dei, diventa il suo supplizio; egli si vede e non può smettere di vedersi; egli vede la vacuità dei giudizi degli uomini, ai quali ha voluto piacere in tutte le sue azioni. Una radicale rivoluzione avviene in tutto il suo intimo, come se gli si fossero sconvolte tutte le viscere; egli non si trova più lo stesso; gli manca nel suo cuore ogni sostegno; la sua coscienza, la cui testimonianza gli era sempre stata così dolce, si leva contro di lui e gli rimprovera amaramente la stravaganza e l'illusione di tutte le sue virtù, che non hanno affatto avuto il culto della Divinità né al principio né alla fine. Egli è sconvolto, costernato, pieno di vergogna, di rimorsi e di disperazione. Le Furie non lo tormentano più, perché è bastato loro l'averlo abbandonato a sé stesso, e perché espii la vendetta degli dei da lui disprezzati, con il suo cuore stesso. Egli cerca i luoghi più oscuri per nascondersi agli altri morti, non potendo nascondersi a sé stesso. Egli cerca le tenebre e non può trovarle; una luce importuna lo segue dappertutto, i raggi penetranti della verità si dirigono ovunque per vendicare la verità ch'egli disdegnò di seguire. Tutto ciò ch'egli ha amato gli diventa odioso, poiché è la fonte dei suoi mali, che mai potranno finire. Dice a sé stesso: "Oh, insensato! Io, dunque, non ho conosciuto né gli dei, né gli uomini, né me stesso! No! Io non ho conosciuto niente, poiché non ho mai amato l'unico vero bene; tutti i miei passi sono stati passi falsi; la mia saggezza non era che follia; la mia virtù non era che un orgoglio empio e cieco; io, io ero l'idolo di me stesso.
Alla fine Telemaco riconobbe i re che erano stati condannati per abuso di potere. Da un lato una Furia vendicatrice presentava loro uno specchio che mostrava tutta la deformità dei loro vizi: qui essi vedevano — e non potevano impedirsi di vedere — la loro rozza vanità, avida delle più meschine lusinghe; la loro crudeltà verso gli uomini, cui essi avrebbero dovuto procurare la felicità; la loro indifferenza per la virtù; la loro paura di ascoltare la verità; la loro predilezione per gli uomini vili e adulatori; la loro inettitudine, la loro fiacchezza, la loro indolenza, la loro diffidenza male indirizzata; i loro fasti e sfarzi eccessivi creati sulla rovina dei popoli; la loro ambizione per conquistare un po' di vana gloria a prezzo del sangue dei loro concittadini; infine, la loro crudeltà che, ogni giorno, cerca nuove delizie fra le lacrime e la disperazione di tanti infelici. Essi si vedevano senza tregua in questo specchio. E si trovavano più orribili e più mostruosi di quanto non fosse la Chimera vinta da Bellerofonte, o l'Idra di Lerna abbattuta da Ercole, o il Cerbero stesso, che pure vomitava dalle sue tre bocche spalancate un sangue nero e velenoso che sarebbe stato in grado di appestare tutta la razza dei mortali che vivono sulla Terra.
Nel medesimo tempo, dall'altro lato, un'altra Furia ripeteva loro ingiuriosamente tutte le lusinghe che gli adulatori avevano loro dispensato durante la vita e li muniva di un altro specchio, dove essi si vedevano come l'adulazione li aveva dipinti. Nel confronto tra questi due opposti ritratti consisteva il supplizio della loro vanità. Si poteva osservare che i più malvagi tra questi re erano quelli che erano stati oggetto delle più grandi e fulgide lusinghe durante la vita. I peggiori, infatti, sono più temuti dei buoni ed esigono senza alcun ritegno le vili adulazioni dei poeti e degli oratori del loro tempo.
Li si sente gemere in quelle profonde tenebre, dove possono solo vedere gli oltraggi e le irrisioni che devono sopportare. Intorno a loro non vi è nulla che non li respinga, che non li contraddica, che non li confonda; sulla Terra invece si prendevano gioco della vita degli uomini e pretendevano che tutto fosse fatto per essere serviti. Nel Tartaro, essi sono alla mercé di alcuni schiavi, i quali fanno loro provare, a loro volta, una crudele schiavitù; essi servono con dolore e non hanno alcuna speranza di poter mai addolcire la loro prigionia; sono sotto i colpi di questi schiavi, divenuti loro implacabili tiranni, come l'incudine sotto i colpi dei martelli dei Ciclopi, quando Vulcano li costringe a lavorare nelle fornaci incandescenti del monte Etna.
Qui, Telemaco vide volti pallidi, orrendi e terrorizzati. Sono rosi da una lugubre tristezza questi criminali e non possono spogliarsi di questo orrore non più di quanto della loro stessa natura. Essi non hanno bisogno d'altro castigo per le loro colpe, se non delle loro stesse colpe; le vedono senza tregua in tutta la loro enormità; esse si presentano loro come orribili spettri e li perseguitano. Per sottrarsi a questa persecuzione, essi cercano una morte ancora più potente di quella che li ha separati dal corpo. Nella disperazione in cui si trovano, essi invocano il soccorso di una morte che possa estinguere in loro ogni sentimento e ogni consapevolezza. Essi chiedono agli abissi di inghiottirli, per sottrarsi così ai raggi vendicatori della verità che li perseguita, ma essi sono destinati alla vendetta, che stilla su di loro goccia a goccia e che non inaridirà mai. La verità, che essi hanno paura di vedere, diventa il loro supplizio, la vedono e non hanno occhi che per vederla ergersi contro di loro: la sua vista li perfora, li strazia, li sradica da sé stessi; essa è come la folgore; senza nulla distruggere esteriormente, li penetra fino in fondo alle viscere.
Tra questi esseri che facevano drizzare i capelli in testa, Telemaco vide molti degli antichi re della Lidia, i quali venivano puniti per aver preferito le delizie di una vita oziosa al lavoro, poiché questo deve essere la consolazione dei popoli e, come tale, inseparabile dalla regalità.
Questi re si rimproveravano reciprocamente il loro ottenebramento. L'uno all'altro, che era stato suo figlio, diceva: "Non ti avevo forse io raccomandato spesso, durante la mia vecchiaia e prima della mia morte, di riparare ai mali che io avevo commesso a causa della mia negligenza?" "Ah, padre disgraziato, — diceva il figlio — siete voi che mi avete rovinato! È stato il vostro esempio a ispirarmi il fasto, l'orgoglio, la voluttà e la crudeltà verso gli uomini. Vedendo voi regnare con tanta incuria e circondato da vili adulatori, io mi sono abituato ad amare l'adulazione e i piaceri. Ho creduto che il resto degli uomini, a confronto dei re, fosse ciò che i cavalli e le altre bestie da soma sono riguardo agli uomini, vale a dire degli animali ai quali si fa caso solo nella misura in cui essi rendono servigi e offrono comodità. Io l'ho creduto, e siete stato voi a farmelo credere; e ora soffro tanti mali per avervi imitato". A questi rimproveri si aggiungevano le più raccapriccianti maledizioni ed essi sembravano posseduti da un furore tale da farsi a pezzi a vicenda.
Attorno a questi re volteggiavano, inoltre, quali gufi nella notte, i crudeli sospetti, i vani allarmi e le diffidenze, che vendicano i popoli della inesorabilità dei loro re, della loro insaziabile fame di ricchezze, della loro falsa gloria sempre tirannica e della loro vile mollezza, che raddoppia tutte le sofferenze, senza mai la compensazione di veri piaceri.
Si vedevano molti di questi re severamente puniti, non per quanto di male avevano commesso, ma per aver trascurato il bene che avrebbero dovuto fare. Tutti i delitti dei popoli, che provengono dalla negligenza con la quale si fanno osservare le leggi, erano imputati ai re, i quali devono regnare solo perché, attraverso il loro ministero, regnino le leggi. Si imputavano ai re anche tutti i disordini che provengono dai fasti, dal lusso e da tutti gli altri eccessi che gettano gli uomini in uno stato di violenza e nella tentazione di disprezzare le leggi per acquisire dei beni. Soprattutto venivano trattati con rigore quei re che, invece di essere dei buoni e vigili pastori dei popoli, non si erano preoccupati che di devastare il gregge, come dei lupi insaziabili.
Ma ciò che costernò maggiormente Telemaco fu di vedere, in questo abisso di tenebre e di mali, un grande numero di re che, passati sulla Terra per dei re abbastanza buoni, erano stati condannati alle pene del Tartaro per essersi lasciati guidare da uomini malvagi e ingannatori. Erano puniti per i mali che essi avevano permesso che si commettessero in nome della loro autorità. Inoltre, per la maggior parte, questi re non erano stati né buoni né cattivi, tanto grande era stata la loro debolezza; mai avevano temuto di ignorare la verità; mai avevano provato il piacere della virtù, né avevano mai messo esultanza nel praticare il bene.»
Quadro dell'inferno Cristiano
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[6] Queste citazioni sono tratte dall'opera intitolata L'Inferno di Auguste Callet.
Dov'è situato l'inferno? Alcuni dotti l'hanno situato nelle viscere stesse della nostra Terra; altri, non so su quale pianeta; ma la questione non è ancora stata risolta da nessun concilio. Su questo punto, siamo dunque ridotti alle congetture. La sola cosa che si afferma unanimemente è che l'inferno, in qualsiasi luogo sia collocato, è un mondo composto di elementi materiali. Ma è un mondo senza Sole, senza Luna, senza stelle, più triste e più inospitale — privo com'è di ogni germe e di ogni parvenza di bene — di quanto non lo siano le più inabitabili parti di questo mondo dove noi pecchiamo.
I teologi più circospetti non s'azzardano a dipingere, alla maniera degli Egiziani, degli Indù e dei Greci, tutti gli orrori di questa dimora; essi si limitano a mostrarcene, come campione, quel poco che ne rivelano le Scritture, cioè lo stagno di fuoco e di zolfo dell'Apocalisse; i vermi di Isaia, quei vermi che eternamente brulicano sulle carogne del Tofel; i demoni che tormentano gli uomini ch'essi stessi hanno rovinato; gli uomini che piangono e digrignano i denti, secondo l'espressione usata dagli Evangelisti.
Sant'Agostino non concorda sul fatto che queste pene fisiche siano semplici riflessi delle sofferenze morali. Egli vede, in un vero stagno di zolfo, dei vermi veri e veri serpenti che si accaniscono su tutte le parti del corpo dei dannati, e i loro morsi si aggiungono a quelli del fuoco. Egli sostiene inoltre, secondo un versetto di san Marco, che questo strano fuoco, benché materiale come il nostro e benché agisca su corpi materiali, li conservi come il sale conserva le carni delle vittime. Ma i dannati, vittime sempre sacrificate e sempre vive, sentiranno il dolore di questo fuoco che brucia senza distruggere; esso penetrerà sotto la loro pelle; ed essi ne saranno imbevuti e saturati in tutte le loro membra, fin nel midollo delle ossa, fin nella pupilla degli occhi, fin nelle fibre più nascoste e più sensibili del loro essere. Il cratere di un vulcano, se vi si potessero immergere, sarebbe per loro un luogo di refrigerio e di riposo.
Così parlano, in tutta sicurezza, i teologi più schivi, più discreti, più riservati. Essi d'altronde non negano che vi siano in inferno altri supplizi corporali; dicono soltanto che, per parlarne, non ne hanno una conoscenza sufficiente così positiva, almeno, quanto quella che è stata loro offerta dall'orribile supplizio del fuoco e da quello disgustoso dei vermi. Ma ci sono anche dei teologi più arditi o più illuminati che dell'inferno fanno descrizioni più dettagliate, più variate e più complete. E, benché non si sappia in quale luogo dello Spazio sia situato questo inferno, ci sono dei santi che l'hanno visto. Non ci sono andati, lira in mano, come Orfeo; né spada in pugno come Ulisse; ma vi sono stati trasportati in spirito. Fa parte di questo numero santa Teresa.
Sembrerebbe, secondo la narrazione della santa, che ci siano delle città nell'inferno. Ella vi vide una specie di stradicciola lunga e stretta, come se ne incontrano tante nelle vecchie città. Vi si inoltrò, camminando con orrore su un terreno fangoso e putrido, che pullulava di rettili mostruosi. Ma fu bloccata nella sua marcia da una muraglia che sbarrava la stradicciola. In questa muraglia c'era una nicchia dove Teresa si rincantucciò, senza tuttavia sapere come ciò accadesse. "Era — ella dice — il posto che le sarebbe stato destinato, se avesse abusato, in vita, delle grazie che Dio le elargiva nella sua cella di Avila." Quantunque si fosse introdotta con una meravigliosa facilità in quella nicchia di pietra, ella non poteva tuttavia né sedervisi né sdraiarvisi né starvi in piedi; né, ancor meno, poteva uscirne. Quelle orribili mura si erano abbassate su di lei, l'avviluppavano, la serravano come se fossero state animate. Le sembrò che la si soffocasse, che la si strangolasse e che, nello stesso tempo, la si scorticasse viva e la si facesse a pezzi. Avvertì che stava bruciando e provava nello stesso tempo ogni genere d'angoscia. Di un qualunque soccorso nessuna speranza: tutto attorno a lei non era che tenebre, e nondimeno attraverso queste tenebre ella intravedeva ancora, non senza stupore, la orribile strada dove si trovava e tutto il suo immondo vicinato, spettacolo per lei intollerabile quanto la strettezza della sua prigione. [7]
Questo, senza dubbio, non era altro che un piccolo angolo dell'inferno. Altri viaggiatori spirituali sono stati maggiormente favoriti. Hanno visto in inferno grandi città completamente in fiamme: Babilonia e Ninive, la stessa Roma, i loro palazzi e i loro templi che bruciavano, e tutti i loro abitanti incatenati: il trafficante incatenato al suo banco; preti, insieme a cortigiane nelle sale dei banchetti, che urlavano sui loro scanni dai quali non riuscivano più a staccarsi, e che si portavano alle labbra, per dissetarsi, coppe da cui uscivano fiamme; e poi valletti, le braccia tese, in ginocchio dentro cloache ribollenti; e principi dalle cui mani scorreva su di loro, a mo' di lava divorante, dell'oro fuso. Altri hanno visto in inferno pianure sconfinate, che contadini famelici aravano e seminavano; e siccome da queste pianure fumanti del loro sudore, da queste sementi sterili, nulla cresceva, questi contadini si divoravano tra di loro. Dopo di che, come prima egualmente numerosi, egualmente emaciati, egualmente affamati, si disperdevano in branchi all'orizzonte, andando a cercare lontano, ma invano, terre più felici. E subito erano rimpiazzati, nelle campagne che essi abbandonavano, da altre colonie erranti di dannati. Ci sono di quelli che hanno visto in inferno montagne colme di precipizi, foreste che gemevano, pozzi senz'acqua, fontane alimentate dalle lacrime, fiumi di sangue, tempeste di neve su deserti di ghiaccio, imbarcazioni cariche di disperati che vogavano su mari senza rive. In una parola, vi si è rivisto tutto ciò che vi vedevano i pagani: un riflesso lugubre della Terra, un'ombra smisuratamente ingigantita delle sue miserie, le sue sofferenze naturali eternizzate, fino alle prigioni sotterranee, ai patiboli e agli strumenti di tortura, che le nostre stesse mani hanno forgiato.
Ci sono, in effetti, laggiù dei demoni i quali, per straziare meglio gli uomini nei loro corpi, assumono anch'essi un corpo. Alcuni hanno ali di pipistrello, corna, corazze di scaglie, zampe munite di artigli, zanne aguzze; ci vengono mostrati armati di spade, di forche, di pinze, di tenaglie arroventate, di seghe, di griglie, di mantici, di clave e, per l'eternità, svolgono in relazione alla carne umana il compito di cucinieri e macellai. Altri demoni, trasformatisi in leoni o in enormi vipere, trascinano le loro prede in caverne solitarie. Altri ancora si trasformano in corvi, per strappare gli occhi ad alcuni colpevoli; o in draghi volanti, per caricarli sul loro dorso e trasportarli completamente atterriti, sanguinanti e urlanti attraverso gli spazi tenebrosi e lasciarli poi piombare nello stagno di zolfo. Ecco nubi di cavallette, scorpioni giganteschi, la cui vista dà i brividi, il cui odore dà la nausea, il cui minimo sfioramento dà le convulsioni; ecco mostri policefali che spalancano da ogni parte gole voraci, che scrollano sulle loro teste deformi criniere di vipere, che triturano i condannati tra le loro mascelle sanguinanti e li vomitano completamente a pezzi ma vivi, perché sono immortali.
Questi demoni dalla forma materiale — che ricordano così palesemente gli dei dell'Amenti [8] e del Tartaro, e gli idoli ch'erano adorati dai Fenici, dai Moabiti e dagli altri Gentili vicini della Giudea — non agiscono affatto a caso; ognuno ha la sua funzione e il suo compito; il male ch'essi fanno in inferno è in rapporto al male che hanno ispirato e indotto a commettere sulla Terra. [9] I dannati sono puniti in tutti i loro sensi e in tutti i loro organi. Puniti in un certo modo come golosi dai demoni della golosità, puniti in altro modo come pigri dai demoni della pigrizia, e in altro modo ancora come fornicatori dai demoni della fornicazione, e in tante altre maniere diverse quante diverse maniere di peccare ci sono. Essi avranno freddo bruciando e caldo gelando; saranno avidi di riposo e avidi di movimento; e sempre affamati, sempre sconvolti, e mille volte più affaticati dello schiavo al termine della giornata, più malati dei moribondi; saranno più dilaniati, più distrutti, più ricoperti di piaghe dei martiri. E questo non finirà mai.
Nessun demone si sottrae e mai si sottrarrà al suo spietato incarico; sotto questo aspetto, sono tutti molto disciplinati e fedeli nell'eseguire gli ordini vendicativi che hanno ricevuto; senza di ciò, d'altronde,che cosa diventerebbe l'inferno? Le vittime si riposerebbero se gli aguzzini litigassero tra di loro o si stancassero. Ma né riposo per gli uni, né risse per gli altri; per quanto essi siano cattivi e per quanto siano innumerevoli, i demoni s'intendono da un capo all'altro dell'abisso, e mai si videro sulla Terra nazioni più sottomesse ai loro prìncipi, eserciti più obbedienti ai loro capi, comunità monastiche più umilmente sottomesse ai loro superiori. [10]
D'altronde non molto si conosce della popolazione dei demoni, questi vili Spiriti di cui sono composte le legioni di vampiri, di diavolesse, di rospi, di scorpioni, di corvi, di idre, di salamandre e di altre bestie senza nome, che costituiscono la fauna delle regioni infernali. Si conoscono, però, e si nominano parecchi dei principi che comandano queste legioni, tra i quali Belfagor, il demone della lussuria; Abaddon o Apollion, il demone dell'assassinio; Belzebù, il demone dei desideri impuri, o il signore delle mosche che generano la corruzione; Mammona, il demone dell'avarizia; e ancora Moloch e Bèlial e Baalgad e Astaroth e molti altri. Al di sopra di essi sta il loro capo supremo, il capo arcangelo che in cielo portava il nome di Lucifero e che in inferno porta quello di Satana.
Ecco, in sintesi, l'idea che ci viene data dell'inferno, considerato dal punto di vista della sua natura fisica e delle pene fisiche che vi si subiscono. Consultate gli scritti dei Padri e degli antichi Dottori; interrogate le nostre pie leggende; osservate le sculture e i quadri delle nostre chiese; prestate orecchio a ciò che si dice dai nostri pulpiti, e voi ne apprenderete ben di più.»
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[7] Si riconoscono, in questa visione tutte le caratteristiche dell'incubo. È dunque probabile che in santa Teresa si sia prodotto un effetto di questo genere.
[8] Nota del traduttore: Negli antichi culti egizi, l'inferno è detto Amenti.
[9] Davvero singolare questa punizione, che consisterebbe nel dover continuare, su più vasta scala, il male che essi hanno fatto in scala ridotta sulla Terra! Sarebbe più razionale che soffrissero essi stessi delle conseguenze di questo male, invece di offrirsi il piacere di farle subire agli altri.
[10] Questi stessi demoni, ribellatisi a Dio per quanto riguarda il bene, sono di una docilità esemplare per quanto riguarda la pratica del male. Nessuno di loro indietreggia né esita per tutta l'eternità. Quale singolare metamorfosi in loro, che erano stati creati puri e perfetti come gli angeli!
Non è forse assai singolare vederli dare l'esempio dell'intesa e dell'armonia perfette, della concordia inalterabile, quando gli uomini invece non sanno vivere in pace e si dilaniano a vicenda sulla Terra? Vedendo la profusione di castighi riservati ai dannati, e raffrontando la loro situazione con quella dei demoni, ci si chiede quali siano più da compiangere: gli aguzzini o le vittime?
«La resurrezione dei corpi è un miracolo; ma Dio fa un secondo miracolo per dare a questi corpi mortali, già un tempo usati nelle prove passeggere della vita, già un tempo annientati, la virtù di sussistere, senza dissolversi in una fornace dove evaporano i metalli stessi. Che si dica che l'anima sia il carnefice di sé stessa, che Dio non la perseguiti, ma che l'abbandoni piuttosto allo stato infelice ch'essa ha scelto, questo può, a rigore, comprendersi, quantunque l'abbandono eterno di un essere traviato e sofferente appaia poco conforme alla bontà del Creatore. Ma ciò che si dice dell'anima e delle pene spirituali non si può, in alcun modo, dire dei corpi e delle pene corporali. Per perpetuare tali pene corporali, non è sufficiente che Dio ritiri la Sua mano; bisogna, al contrario, ch'Egli la mostri, ch'Egli intervenga, ch'Egli agisca, altrimenti il corpo soccomberebbe.
I teologi suppongono dunque che Dio operi, in effetti, dopo la resurrezione, questo secondo miracolo di cui abbiamo parlato. Prima di tutto, Egli trae dal sepolcro, che li ha divorati, i nostri corpi d'argilla; li trae tali e quali come vi sono entrati, con le loro infermità originali e successivi deterioramenti dovuti all'età, alla malattia e al vizio; ce li rende in questo stato — decrepiti, intirizziti, gottosi, pieni di necessità, sensibili a una puntura d'ape, del tutto coperti dalle ferite che la vita e la morte vi hanno impresso — ed è questo il primo miracolo. Poi a questi miseri corpi, pronti a ritornare alla polvere da cui sono usciti, Egli impone una proprietà che non avevano mai avuta, ed ecco il secondo miracolo; Egli impone loro l'immortalità, quello stesso dono che nella Sua collera — dite piuttosto nella Sua misericordia — aveva tolto ad Adamo all'uscita dall'Eden. Quando Adamo era immortale, era invulnerabile, e quando cessa di essere invulnerabile, diventa mortale. La morte segue da vicino il dolore.
La resurrezione, dunque, non ci riporta né alle condizioni fisiche dell'uomo innocente, né alle condizioni fisiche dell'uomo colpevole. È solo una resurrezione delle nostre miserie, ma con un sovraccarico di miserie nuove, infinitamente più orribili; è, in parte, una vera creazione, e la più maligna che l'immaginazione abbia osato concepire. Dio si ricrede e, per aggiungere ai tormenti spirituali dei peccatori anche tormenti carnali che possano durare per sempre, cambia tutto a un tratto, per effetto del Suo potere, le leggi e le proprietà, da Lui stesso assegnate fin dal principio, ai componenti della materia. Egli resuscita carni malate e corrotte e, legando con un nodo indistruttibile quegli elementi che tendono già di per sé stessi a separarsi, mantiene e perpetua, contro l'ordine naturale, quella putredine vivente. La getta nel fuoco, non per purificarla, ma per conservarla tale quale essa è, sensibile, sofferente, bruciante, orribile, tale, con ciò, quale Egli la vuole: immortale.
Si fa di Dio, con questo miracolo, uno degli aguzzini dell'inferno, perché se i dannati non possono imputare che a sé stessi i loro mali spirituali, non possono, d'altra parte, attribuire gli altri mali che a Lui. Evidentemente sarebbe stato troppo poco abbandonarli, dopo la morte, alla tristezza, al pentimento e a tutte le angosce di un'anima che sente di aver perduto il bene supremo. Dio, secondo i teologi, andrà a cercarli, quella notte, al fondo di quell'abisso; li richiamerà per un momento alla vita non per consolarli, ma per rivestirli di un corpo orribile, fiammeggiante, imperituro, più appestato del manto di Deianira, ed è allora soltanto che Egli li abbandonerà per sempre.
Ma anche così non li abbandonerà, perché l'inferno non sussiste — come pure la Terra e il Cielo — se non per un atto permanente della Sua volontà, sempre attiva, e perché svanirebbe s'egli cessasse di sostenere questo tutto. Egli, perciò, terrà continuamente la mano su di essi, per impedire che il loro fuoco si spenga e i loro corpi si consumino, volendo che questi disgraziati immortali contribuiscano con l'eternità del loro supplizio, all'edificazione degli eletti.»
Senza dubbio, al giorno d'oggi, vi sono nella Chiesa stessa molti uomini sensati che non considerano queste cose alla lettera e non vi scorgono che delle allegorie di cui bisogna comprendere lo spirito; ma la loro opinione è soltanto individuale e non fa legge. La credenza nell'inferno materiale, con tutte le sue conseguenze, resta ancora, dunque, un articolo di fede.
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[11] il Libro degli Spiriti, nn. 443 e 444.
Capitolo V - IL PURGATORIO
Se il primo pensiero è stato buono, altrettanto non avviene riguardo alle sue conseguenze, a causa degli abusi di cui esso è stato l'origine. Grazie alle preghiere pagate, il purgatorio è diventato una miniera più produttiva dell'inferno. [1]
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[1] Il purgatorio ha dato origine al commercio scandaloso delle indulgenze, grazie alle quali si vendeva l'ingresso in Cielo. Questo abuso è stato il primo motivo della Riforma, ed è quello che indusse Lutero a rifiutare il purgatorio.
Queste miserie sono necessariamente l'effetto delle imperfezioni dell'anima; se l'anima, infatti, fosse perfetta non commetterebbe errori e non dovrebbe subirne le conseguenze. L'uomo che sulla Terra fosse del tutto sobrio e moderato, per esempio, non sarebbe preda delle malattie che gli eccessi generano. Il più delle volte l'uomo si trova a essere infelice sulla Terra per sua stessa colpa; ma se egli è imperfetto, è perché già lo era prima di venire sulla Terra; qui egli espia non solo le sue colpe attuali, ma anche le colpe anteriori che non ha riparato; egli soffre in una vita di prove ciò che, in un'altra esistenza, ha fatto soffrire agli altri. Le vicissitudini ch'egli sopporta sono allo stesso tempo un castigo temporaneo e un avvertimento riguardo alle imperfezioni di cui deve disfarsi, per evitare le disgrazie future e per avanzare verso il bene. Sono per l'anima lezioni d'esperienza, lezioni a volte dure, ma tanto più vantaggiose per l'avvenire quanto più profonda è l'impressione ch'esse lasciano.
Queste vicissitudini sono occasione di lotte incessanti, che sviluppano le forze e le facoltà dell'anima sia morali sia intellettuali. Attraverso queste lotte l'anima si fortifica nel bene e ne esce sempre vittoriosa, se ha il coraggio di sostenerle fino alla fine. Il premio della vittoria sta nella vita spirituale, in cui l'anima entra radiosa e trionfante, come il soldato che esce dalla mischia e va a ricevere la palma gloriosa.
È, dunque, nelle incarnazioni successive che l'anima si libera a poco a poco delle sue imperfezioni, che, in una parola, si purifica finché sia abbastanza pura da meritare di lasciare i mondi dell'espiazione per mondi più felici, e per lasciare più tardi, anche questi, per gioire della felicità suprema.
Il purgatorio non è più, dunque, un'idea vaga e incerta; è una realtà che noi vediamo, che noi tocchiamo e che noi subiamo. Esso è nei mondi dell'espiazione, e la Terra è uno di questi mondi; gli uomini vi espiano il loro passato e il loro presente, a vantaggio del loro futuro. Ma, contrariamente all'idea che uno se ne fa, dipende da ciascun individuo abbreviare o prolungarvi il proprio soggiorno, a seconda del grado di avanzamento e di purificazione, al quale ciascuno è pervenuto attraverso il suo lavoro su sé stesso. Se ne esce, non perché il proprio tempo sia finito o per meriti altrui, ma in conseguenza del proprio stesso merito, secondo queste parole del Cristo: A ciascuno secondo le sue opere, parole che riassumono tutta la giustizia di Dio.
L'espiazione, nel mondo degli Spiriti e sulla Terra, non è affatto un doppio castigo per lo Spirito; è il medesimo castigo che si protrae sulla Terra, come complemento, per facilitare il suo miglioramento attraverso un lavoro efficace; dipende però da lui metterlo a profitto. Non vale forse di più per lui ritornare sulla Terra, con la possibilità di guadagnarsi il Cielo, piuttosto che essere condannato senza remissione, lasciandola? Questa libertà, che è a lui accordata, è una prova della saggezza, della bontà e della giustizia di Dio, che vuole che l'uomo debba tutto ai suoi stessi sforzi e sia l'artefice del suo futuro; se egli è infelice e se lo è più o meno a lungo, non può prendersela che con sé stesso: la via del progresso gli è sempre aperta.
Lo Spiritismo respinge le preghiere per i trapassati? Proprio il contrario, dal momento che gli Spiriti sofferenti le sollecitano. Lo Spiritismo ne fa anzi un dovere di carità e dimostra l'efficacia che esse hanno nel ricondurre gli Spiriti al bene e nell'abbreviare, con questo mezzo, i loro tormenti. [2] Parlando all'intelligenza, esso ha ricondotto alla fede ì non credenti e alla preghiera coloro che se ne facevano beffe. Ma lo Spiritismo dice anche che l'efficacia delle preghiere è nel pensiero e non nelle parole, che le migliori preghiere sono quelle del cuore e non quelle delle labbra, quelle infine che si pronunciano da sé stessi, e non quelle che si fanno dire a pagamento. Chi dunque oserebbe censurarlo?
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[2] Vedere Il Vangelo secondo lo Spiritismo, cap. XXVII: "Azione della preghiera", pag. 320.
Il termine purgatorio suggerisce l'idea di un luogo circoscritto: questo avviene perché si applica più naturalmente alla Terra, considerata come luogo di espiazione, piuttosto che allo Spazio infinito, dove errano gli Spiriti sofferenti; e, inoltre, perché la natura dell'espiazione terrena ha i caratteri della vera espiazione.
Quando gli uomini si saranno migliorati, essi non forniranno al mondo invisibile altro che buoni Spiriti, e questi, incarnandosi, non forniranno all'umanità corporea altro che elementi perfezionati. Cessando, allora, la Terra d'essere un mondo di espiazione, gli uomini non vi soffriranno più quelle miserie che sono le conseguenze delle loro imperfezioni. Questa è la trasformazione che si sta operando in questo momento e che eleverà la Terra nella gerarchia dei mondi. [3]
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[3] Vedere Il Vangelo secondo lo Spiritismo, cap. III: "Progresso dei mondi".
Poiché la Chiesa ha creduto di dover supplire, dopo sei secoli, al silenzio di Gesù decretando l'esistenza del purgatorio, è perché ha pensato ch'egli non aveva detto tutto. Perché ciò non dovrebbe verificarsi su altri punti?
Capitolo VI - DOTTRINA DELLE PENE ETERNE
Origine della dottrina delle pene eterne
Per uomini tali, v'era bisogno di credenze religiose adeguate alla loro natura ancora rozza. Una religione tutta spirituale, fatta tutta di amore e di carità, non poteva essere associata alla brutalità dei costumi e delle passioni. Non biasimiamo, perciò, Mosè per la sua legislazione draconiana, che era appena sufficiente a contenere il suo popolo indocile, né d'aver fatto di Dio un Dio vendicatore. Di questo c'era bisogno a quell'epoca; la dolce dottrina di Gesù non vi avrebbe trovato eco e sarebbe stata impotente.
Orbene, chi erano gli uomini che vivevano al tempo di Gesù? Erano anime da poco create e incarnate? Se così fosse, Dio avrebbe dunque creato al tempo di Gesù delle anime più avanzate che al tempo di Mosè. Ma, allora, che sarebbe avvenuto di queste ultime? Avrebbero esse languito per l'eternità nell'abbrutimento? Il semplice buon senso respinge questa supposizione. No: c'erano le medesime anime, le quali, dopo aver vissuto sotto il dominio della legge mosaica, avevano, attraverso numerose esistenze, acquisito uno sviluppo sufficiente per comprendere una dottrina più elevata. Al giorno d'oggi queste anime sono abbastanza avanzate da ricevere un insegnamento ancora più completo.
La dottrina delle pene e delle ricompense future appartiene a quest'ultimo ordine di idee. Soprattutto riguardo alle pene, egli non poteva rompere tutt'a un tratto con le idee precostituite. Egli veniva per indicare agli uomini nuovi doveri: la carità e l'amore verso il prossimo sostituivano lo spirito di odio e di vendetta; l'abnegazione si sostituiva all'egoismo. Ed era già molto. Non poteva razionalmente indebolire il timore del castigo riservato ai prevaricatori, senza indebolire nello stesso tempo l'idea di dovere. Prometteva il regno dei cieli ai buoni; questo regno, dunque, era interdetto ai malvagi; e questi dove sarebbero andati? Inoltre, sarebbe stata necessaria una inversione della Natura, per impressionare delle intelligenze ancora troppo materiali per identificarsi con la vita spirituale. Infatti, non si deve perdere di vista che Gesù si rivolgeva al popolo, alla parte meno illuminata della società, per la quale c'era bisogno di immagini in qualche modo palpabili, e non di idee sottili. È per questo ch'egli, a tale riguardo, non entrava in dettagli superflui: gli bastava contrapporre una punizione alla ricompensa. Non c'era bisogno d'altro a quell'epoca.
Nel Padre nostro, Gesù ci insegna a dire: "Signore, rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori". Se il colpevole non avesse alcun perdono in cui sperare, sarebbe inutile domandarlo. Ma questo perdono è senza condizioni? È una grazia, una remissione pura e semplice della pena in cui si è incorsi? No. La misura di questo perdono è subordinata alla maniera con cui noi stessi avremo perdonato; vale a dire che se noi non perdoniamo, noi non saremo perdonati. Dio, facendo dell'oblio delle offese una condizione assoluta, non poteva esigere che il debole uomo facesse ciò ch'Egli, l'Onnipotente, non avrebbe mai fatto. Il Padre nostro è una sconfessione quotidiana contro l'eterna vendetta di Dio.
Il carattere essenziale delle pene irrevocabili sta nell'inefficacia del pentimento. Ora, mai Gesù ha detto che il pentimento non avrebbe trovato grazia davanti a Dio. Al contrario, in ogni occasione, egli ci mostra un Dio clemente, misericordioso, pronto a ricevere il figliol prodigo rientrato sotto il tetto paterno. Egli ci mostra un Dio inflessibile solo verso il peccatore irriducibile; ma se Egli tiene il castigo in una mano, nell'altra tiene sempre il perdono ed è pronto a riversarlo sul colpevole non appena questi ritorna sinceramente a lui. Questa non è di certo la rappresentazione di un Dio senza pietà. C'è anche da notare che Gesù non ha mai pronunciato contro nessuno, neppure contro i più grandi colpevoli, delle condanne irrevocabili.
Sì. Ci sono dei filosofi — empi secondo alcuni — i quali si sono scandalizzati nel vedere il nome di Dio, profanato da atti indegni di Lui. Sono coloro che l'hanno mostrato agli uomini in tutta la Sua grandezza, dispogliandoLo delle passioni e delle grettezze umane attribuiteGli da una fede non illuminata. La religione ha guadagnato in dignità ciò che essa ha perduto in prestigio esteriore. Infatti, se ci sono meno uomini attaccati alla forma, ce ne sono molti di più che sono sinceramente religiosi con il cuore e con i sentimenti.
Ma, a fianco di questi, quanti sono quelli che, arrestandosi alla superficie, sono stati indotti alla negazione di ogni provvidenza! Non avendo saputo mettere, al momento opportuno, in armonia le credenze religiose con il progresso della ragione umana, si è fatto nascere negli uni il deismo, negli altri la miscredenza assoluta, in altri ancora il panteismo, vale a dire che l'uomo si è fatto dio lui stesso, non vedendone alcuno abbastanza perfetto.
Argomenti a sostegno delle pene eterne
"È dottrina sancita tra gli uomini che la gravità dell'offesa è proporzionale al valore dell'offeso. L'offesa che è commessa nei confronti di un sovrano, essendo considerata più grave di quella che riguarda soltanto un privato cittadino, è punita più severamente. Ora, Dio è più di un sovrano; poiché Egli è infinito, infinita è l'offesa verso di Lui e deve perciò avere un castigo infinito, cioè eterno."
Confutazione — Ogni confutazione è un ragionamento che deve avere il suo punto di partenza, una base su cui poggiare, in una parola, delle premesse. Noi prendiamo tali premesse negli attributi stessi di Dio:
Dio è unico, eterno, immutabile, immateriale, onnipotente, sovranamente giusto e buono, infinito in tutte le sue perfezioni.
È impossibile concepire Dio in modo diverso dall'infinito delle perfezioni; altrimenti Egli non sarebbe Dio, perché si potrebbe concepire un altro essere che possiede quanto a Lui manca. Perché sia il solo al di sopra di tutti gli esseri, bisogna che non ci sia alcuno che possa superarlo né eguagliarlo in una qualsiasi cosa. Bisogna, dunque, ch'Egli sia infinito in tutto.
Essendo gli attributi di Dio infiniti, essi non sono suscettibili né di aumenti né di diminuzioni; altrimenti non sarebbero infiniti, né Dio sarebbe perfetto. Se si togliesse la più piccola particella da uno solo dei suoi attributi, non si avrebbe più Dio, poiché potrebbe esistere un essere più perfetto.
L'infinito di una qualità esclude la possibilità dell'esistenza di una qualità contraria che potrebbe sminuirla o annullarla. Un essere infinitamente buono non può avere la più piccola particella di malvagità, né l'essere infinitamente malvagio può avere la più piccola particella di bontà; allo stesso modo che un oggetto non potrebbe definirsi d'un nero assoluto, se avesse la più leggera sfumatura di bianco, né definirsi d'un bianco assoluto con la più piccola macchia di nero.
Posto questo punto di partenza, all'argomento di cui sopra vengono opposti gli argomenti che qui di seguito elenchiamo.
Se l'uomo potesse essere infinito in ciò che fa di male, egualmente lo sarebbe in ciò che fa di bene, e allora sarebbe uguale a Dio. Ma, se l'uomo fosse infinito in ciò che fa di bene, non farebbe del male, poiché il bene assoluto comporta l'esclusione di ogni male.
Ammettendo che un'offesa temporanea contro la Divinità possa essere infinita, Dio, vendicandosi con un castigo infinito, sarebbe infinitamente vendicativo; s'Egli è infinitamente vendicativo, non può essere infinitamente buono e misericordioso, poiché l'uno di questi attributi è la negazione dell'altro. Se non è infinitamente buono, Egli non è perfetto e, se non è perfetto, Egli non è Dio.
Se Dio è inesorabile verso il colpevole che si pente, Egli non è misericordioso; se non è misericordioso, Egli non è infinitamente buono.
Perché Dio dovrebbe imporre all'uomo una legge del perdono, se Lui stesso non dovesse perdonare? Ne risulterebbe che l'uomo che perdona ai suoi nemici, e rende loro bene per male, sarebbe migliore di Dio che resta sordo al pentimento di colui che l'ha offeso e gli rifiuta, per l'eternità, il più lieve intenerimento!
Dio, che è dappertutto e vede tutto, dovrebbe pur vedere le torture dei dannati. Se è insensibile ai loro lamenti durante tutta l'eternità, Egli è eternamente senza pietà. Se è senza pietà, non è infinitamente buono.
Questo non è messo in dubbio, e ben si comprende che Dio perdoni solo al pentito e sia inflessibile nei confronti dei protervi. Ma s'Egli è pieno di misericordia per l'anima che si pente prima di aver abbandonato il suo corpo, perché cesserebbe di esserlo per quella che si pente dopo la morte? Perché il pentimento avrebbe efficacia solo in vita, che non è che un istante, e non ne avrebbe più durante l'eternità, che non ha fine? Se la bontà e la misericordia di Dio sono delimitate da un tempo determinato, esse allora non sono infinite, e Dio non è infinitamente buono.
Se, per una colpa temporanea, che è sempre il risultato della natura imperfetta dell'uomo e, spesso, dell'ambiente in cui egli si trova, l'anima potesse essere punita eternamente, senza speranza né di un alleviamento né di perdono, non ci sarebbe allora nessuna proporzione tra l'errore e la punizione: dunque non ci sarebbe giustizia.
Se il colpevole ritorna a Dio, si pente e chiede di riparare al male che ha fatto, si tratta in questo caso di un ritorno al bene, ai buoni sentimenti. Se il castigo è irrevocabile, questo ritorno al bene è senza frutto; e, poiché non si è tenuto conto del bene, questa non è giustizia. Fra gli uomini, il condannato che si ravvede vede commutata la sua pena, a volte anche tolta. Dunque, nella giustizia umana, ci sarebbe più equità che nella giustizia divina!
Se la condanna è irrevocabile, il pentimento è inutile; il colpevole, non avendo niente da sperare dal suo ritorno al bene, persiste nel male. Dimodoché non solo Dio lo condanna a soffrire eternamente, ma a rimanere anche nel male per l'eternità. Ciò non apparterrebbe né alla giustizia né alla bontà.
Se Dio, toccato dal pentimento d'un dannato, può stendere su di lui la Sua misericordia e toglierlo dall'inferno, non vi sarebbero più pene eterne, e il giudizio pronunciato dagli uomini verrebbe revocato.
"Poiché la ricompensa accordata ai buoni è eterna, essa deve avere come contropartita una punizione eterna. Proporzionare la punizione alla ricompensa è cosa giusta."
Confutazione — Dio creò l'anima con l'intenzione di renderla felice o infelice? Evidentemente, la felicità della creatura deve essere lo scopo della Sua Creazione, altrimenti Dio non sarebbe buono. La creatura raggiunge la felicità attraverso il suo stesso merito; acquisito il merito, essa non può perderne il frutto, altrimenti degenererebbe. L'eternità della felicità è dunque la conseguenza della sua immortalità.
Ma, prima di arrivare alla perfezione, essa deve sostenere delle lotte, deve dar battaglia alle cattive passioni. Non avendola Dio creata perfetta, ma suscettibile di divenirlo, affinché essa abbia il merito delle sue azioni, l'anima può fallire. Le sue cadute sono le conseguenze della sua naturale fragilità. Se, per una caduta, essa dovesse essere punita eternamente, ci si potrebbe chiedere perché Dio non l'ha creata più forte. La punizione che subisce è l'avvertimento che essa ha commesso del male, e deve avere come risultato, quello di ricondurla sulla retta via. Se la pena fosse irremissibile, il suo desiderio di fare meglio sarebbe superfluo; perciò il fine provvidenziale della creazione non potrebbe essere raggiunto, poiché vi sarebbero esseri predestinati alla felicità e altri all'infelicità. Se un'anima colpevole si pente, potrebbe divenire buona; potendo divenire buona, essa può aspirare alla felicità. Dio, rifiutandogliene i mezzi sarebbe giusto?
Essendo il bene lo scopo finale della Creazione, la felicità — che ne è il premio — deve essere eterna; il castigo — che è un mezzo per arrivarvi — deve essere temporaneo. La più comune nozione di giustizia, anche tra gli uomini, dice che non si può punire perpetuamente colui che ha il desiderio e la volontà di agire bene.
"La paura di un castigo eterno è un freno; se lo si toglie, l'uomo, non temendo più nulla, si abbandonerà a ogni trasgressione."
Confutazione — Questo ragionamento sarebbe giusto, se la non-eternità delle pene comportasse la soppressione di ogni sanzione penale. La condizione felice o infelice nella vita futura è una conseguenza rigorosa della giustizia di Dio, poiché un'uguaglianza di situazione tra l'uomo buono e l'uomo perverso sarebbe la negazione di questa giustizia. Ma per il fatto di non essere eterno, non è che il castigo sia meno penoso; inoltre, tanto più lo si teme quanto più vi si crede, e tanto più vi si crede quanto più esso è razionale. Una pena alla quale non si creda non è più un freno, e l'eternità delle pene fa parte di questo caso.
La credenza nelle pene eterne, come già abbiamo detto, ha avuto la sua utilità e la sua ragion d'essere in una certa epoca; al giorno d'oggi, non solo essa non impressiona più, ma genera non credenti. Prima di porla come una necessità, bisognerebbe dimostrarne la realtà. Bisognerebbe, soprattutto, che se ne vedesse l'efficacia su coloro che la preconizzano e si sforzano di dimostrarla. Disgraziatamente, tra di essi, troppi dimostrano con le loro azioni di non esserne affatto spaventati. Se tale credenza è impotente a reprimere il male in quanti dicono di credervi, quale potere può essa avere su coloro che non vi credono?
Impossibilità materiale delle pene eterne
Secondo questo dogma, la sorte dell'anima è irrevocabilmente fissata dopo la morte. Ed è dunque, questo, un punto d'arresto definitivo applicato al progresso. Ora, l'anima progredisce sì o no? Sta qui tutta la questione. Se essa progredisce, l'eternità delle pene è impossibile.
Si può forse dubitare di questo progresso, quando si vede l'immensa varietà di attitudini morali e intellettuali che esistono sulla terra, dal selvaggio all'uomo civilizzato? Quando si vedono le differenze che un medesimo popolo presenta da un secolo all'altro? Se si ammette che non sono più le medesime anime, bisogna ammettere, allora, che Dio crea anime a tutti i livelli d'avanzamento, secondo i tempi e i luoghi; ch'Egli favorisce le une, mentre destina le altre a una inferiorità perpetua, cosa che è incompatibile con la giustizia, che deve essere la stessa per tutte le creature.
A quest'ultima asserzione, si risponde che la conversione di questi personaggi santi non è il risultato del progresso dell'anima, ma della grazia che fu loro accordata e dalla quale essi furono toccati.
Ma a questo punto è voler giocare con le parole. Se essi hanno commesso il male e più tardi compiuto il bene, significa che essi sono diventati migliori; essi dunque sono progrediti. Dio avrebbe, perciò, accordato loro, attraverso un favore speciale, la grazia di correggersi? Perché a loro sì e ad altri no? Si tratta sempre della dottrina dei privilegi, incompatibile con la giustizia di Dio e con il Suo amore, eguale per tutte le Sue creature.
Secondo la Dottrina Spiritista, in accordo con le parole stesse del Vangelo, con la logica e con la giustizia più rigorosa, l'uomo è il figlio delle sue opere, durante questa vita e dopo la morte; egli non deve nulla al favore: Dio lo ricompensa dei suoi sforzi e lo punisce per la sua negligenza, per tutto il tempo ch'egli è negligente.
La dottrina delle pene eterne ha fatto il suo tempo
Così è oggi per l'Umanità: è uscita dall'infanzia e si è scrollata di dosso le sue briglie. L'uomo non è più quello strumento passivo che si piegava sotto la forza materiale, né quell'essere ingenuo che accettava tutto, a occhi chiusi.
Le idee seguono un corso incessantemente progressivo; non si possono governare gli uomini che seguendo questo corso; volerlo arrestare o farlo retrocedere, o semplicemente restare indietro allorché esso avanza, vuol dire perdersi. Seguire o non seguire questo movimento è una questione di vita o di morte, per le religioni così come per i governanti. È un bene? È un male? Sicuramente è un male agli occhi di quanti, vivendo del passato, vedono questo passato sfuggir loro di mano; per quanti vedono il futuro, è la legge del progresso, che è una legge di Dio, e contro le leggi di Dio ogni resistenza è inutile; lottare contro la Sua volontà è volersi schiantare.
Perché, dunque, volere per forza sostenere una credenza che cade in disuso e che in definitiva fa più male che bene alla religione? Ahimè! È triste doverlo dire, ma qui una questione materiale surclassa la questione religiosa. Questa credenza è stata largamente sfruttata, sostenuta com'era dall'idea secondo cui con il denaro ci si potevano far aprire le porte del cielo, e salvarsi così dall'inferno. Le somme che questa credenza ha apportato e che tuttora apporta sono incalcolabili; è l'imposta prelevata sulla paura dell'eternità. Essendo questa imposta facoltativa, il prodotto è proporzionale alla credenza; se la credenza non esiste più, il prodotto diviene nullo. Il bambino dà volentieri il suo dolce a chi gli promette di scacciare il lupo mannaro; ma quando il bambino non crede più al lupo mannaro, si tiene il suo dolce.
Agli occhi dei miscredenti, il dogma dell'eternità delle pene è una questione futile, di cui essi si fanno beffe. Agli occhi del filosofo, esso comporta una gravità sociale, per gli abusi ai quali dà luogo. L'uomo veramente religioso vede quanto la dignità della religione sia interessata alla distruzione di questi abusi e delle loro cose.
Ezechiele contro l'eternità delle pene e il peccato originale
«1. La parola del Signore mi fu rivolta in questi termini:
2. "Perché dite nel paese d'Israele questo proverbio: 'I padri hanno mangiato uva acerba e i denti dei figli si sono allegati?' 3. Com'è vero che io vivo, dice Dio, il Signore, non avrete più occasione di dire questo proverbio in Israele. 4. Ecco, tutte le vite sono mie; è mia tanto la vita del padre quanto quella del figlio; chi pecca morirà.
5. Se uno è giusto e pratica l'equità e la giustizia, 6. se non mangia sui monti e non alza gli occhi verso gli idoli della casa d'Israele, se non contamina la moglie del suo prossimo, se non si accosta a donna mentre è impura, 7. se non opprime nessuno, se restituisce al debitore il suo pegno, se non commette rapine, se dà il pane a chi ha fame e copre di vesti chi è nudo, 8. se non presta a interesse e non dà a usura, se allontana la sua mano dall'iniquità e giudica secondo verità fra uomo e uomo, 9. se segue le mie leggi e osserva le mie prescrizioni agendo con fedeltà, egli è giusto; certamente vivrà, dice Dio, il Signore.
10. Ma se ha generato un figlio che è un violento, che sparge il sangue e fa a suo fratello qualcuna di queste cose 11. (cose che il padre non commette affatto): mangia sui monti, e contamina la moglie del suo prossimo, 12. opprime l'afflitto e il povero, commette rapine, non restituisce il pegno,alza gli occhi verso gli idoli, fa delle abominazioni, 13. presta a interesse e dà a usura, questo figlio vivrà forse? No, non vivrà! Egli ha commesso tutte queste abominazioni, e sarà certamente messo a morte; il suo sangue ricadrà su di lui.
14. Ma se egli ha generato un figlio, il quale, dopo aver visto tutti i peccati che suo padre ha commesso, vi riflette e non fa tali cose: 15. non mangia sui monti, non alza gli occhi verso gli idoli della casa d'Israele, non contamina la moglie del suo prossimo, 16. non opprime nessuno, non prende pegni, non commette rapine, ma dà il suo pane a chi ha fame, copre di vesti chi è nudo, 17. non fa pesare la mano sul povero, non prende interesse né usura, osserva le mie prescrizioni e segue le mie leggi, questo figlio non morrà per l'iniquità del padre; egli certamente vivrà. 18. Suo padre, siccome è stato un oppressore, ha commesso rapine a danno del fratello e ha fatto ciò che non è bene in mezzo al suo popolo, ecco che muore per la sua iniquità.
19. Se voi diceste: 'Perché il figlio non paga per l'iniquità del padre?' Ciò è perché quel figlio pratica l'equità e la giustizia, osserva tutte le mie leggi e le mette a effetto. Certamente egli vivrà. 20. La persona che pecca è quella che morirà, il figlio non pagherà per l'iniquità del padre, e il padre non pagherà per l'iniquità del figlio; la giustizia del giusto sarà sul giusto, l'empietà dell'empio sarà sull'empio. 21. Se l'empio si allontana da tutti i peccati che commetteva, se osserva tutte le mie leggi e pratica l'equità e la giustizia, egli certamente vivrà, non morirà. 22. Nessuna delle trasgressioni che ha commesse sarà più ricordata contro di lui; per la giustizia che pratica, egli vivrà. 23. Io provo forse piacere se l'empio muore? dice Dio, il Signore. Non ne provo piuttosto quando egli si converte dalle sue vie e vive?"» (Ezechiele 18:1-23).
«Dì loro: "Com'è vero che io vivo", dice Dio, il Signore, "io non mi compiaccio della morte dell'empio, ma che l'empio si converta dalla sua via e viva; convertitevi, convertitevi dalle vostre vie malvagie! Perché morireste, o casa d'Israele?"» (Ezechiele 33:11).
Capitolo VII - LE PENE FUTURE SECONDO LO SPIRITISMO
È perfettamente riconosciuto al giorno d'oggi, da parte dei filosofi spiritualisti, che gli organi cerebrali, corrispondenti alle diverse attitudini, devono il loro sviluppo all'attività dello Spirito; e che tale sviluppo è così un effetto e non una causa. Un uomo non è un musicista perché ha il bernoccolo della musica, ma ha il bernoccolo della musica semplicemente perché il suo Spirito è musicista.
Se l'attività dello Spirito agisce sul cervello, egualmente essa deve agire sulle altre parti dell'organismo. Lo Spirito è, perciò, l'artista del suo stesso corpo che forgia, per così dire, in modo da adattarlo alle sue esigenze e alla manifestazione delle sue tendenze. Stabilito ciò, la perfezione del corpo delle razze più avanzate non sarebbe, dunque, il prodotto di creazioni distinte, ma il risultato del lavoro dello Spirito, che perfeziona il suo utensile, nella misura in cui le sue facoltà aumentano.
Per una conseguenza naturale di questo principio, le disposizioni morali dello Spirito devono modificare le qualità del sangue, dargli una maggiore o minore attività, provocare una secrezione più o meno abbondante di bile o di altri fluidi. È così, per esempio, che il goloso si sente venire l'acquolina in bocca alla vista di un piatto appetitoso. Non è certo il piatto che può sovreccitare l'organo del gusto, dal momento che non v'è contatto; è dunque lo Spirito, la cui sensibilità viene risvegliata, che agisce attraverso il pensiero su questo organo, mentre su un'altra persona la vista di quel piatto non produce alcun effetto. Ancora per la stessa ragione accade che una persona sensibile versi facilmente le lacrime; non è l'abbondanza delle lacrime che dà la sensibilità allo Spirito, ma è la sensibilità dello Spirito che provoca la secrezione abbondante delle lacrime. Sotto il dominio della sensibilità, l'organismo si è adeguato a questa normale disposizione dello Spirito, come si è adeguato a quella dello Spirito goloso.
Seguendo quest'ordine di idee, si comprende come uno Spirito irascibile debba indurre a un temperamento bilioso. Ne consegue che un uomo non è collerico perché è bilioso, ma è bilioso perché è collerico. E avviene la stessa cosa per tutte le altre disposizioni istintive; uno Spirito pigro e indolente lascerà il suo organismo in uno stato di atonia in rapporto con il suo carattere; mentre, s'egli è attivo ed energetico, darà al suo sangue e ai suoi nervi delle qualità perfettamente opposte. L'azione dello Spirito sul fisico è talmente evidente che spesso si notano gravi disordini organici prodursi per effetto di violente commozioni morali. L'espressione popolare, l’emozione gli ha rivoltato il sangue, non è poi così priva di senso quanto uno potrebbe credere. Orbene, che cosa avrebbe potuto rivoltare il sangue, se non una disposizione morale dello Spirito?
Si può dunque ammettere che il temperamento è, almeno in parte, determinato dalla natura dello Spirito, che è causa e non effetto. Diciamo in parte, poiché ci sono dei casi in cui il fisico influisce in modo evidente sul morale: ciò avviene allorché uno stato morboso o anormale è determinato da una causa esterna, accidentale, non dipendente dallo Spirito, quali la temperatura, il clima, i vizi ereditari di costituzione, una malattia passeggera ecc. Il morale dello Spirito può allora essere alterato nelle sue manifestazioni dallo stato patologico, senza però che sia modificata la sua natura intrinseca.
Scusarsi dei propri errori adducendo la fragilità della carne, altro non è che un sotterfugio per sottrarsi alla propria responsabilità. La carne è debole solo perché debole è lo Spirito, la qual cosa ribalta la questione e lascia allo Spirito la responsabilità di tutti i suoi atti. La carne che non ha né pensiero né volontà, non prevale mai sullo Spirito, che è l'essere che pensa e che vuole. È lo Spirito che dà alla carne le qualità corrispondenti ai suoi istinti, così come un artista imprime alla sua opera materiale l'impronta del suo genio. Lo Spirito, affrancato dagli istinti della bestialità, si modella un corpo che non è più un tiranno per le sue aspirazioni verso la spiritualità del suo essere. Ciò avviene allorché l'uomo mangia per vivere — poiché vivere è una necessità —, ma non vive più per mangiare.
La responsabilità morale degli atti della vita resta dunque intatta; ma la ragione ci dice che le conseguenze di questa responsabilità devono essere in rapporto con lo sviluppo intellettuale dello Spirito; più questo è illuminato e meno è giustificabile, poiché con l'intelligenza e con il senso morale nascono le nozioni del bene e del male, del giusto e dell'ingiusto.
Questa legge spiega l'insuccesso della Medicina in taluni casi. Dal momento che il temperamento è un effetto e non una causa, gli sforzi tentati per modificarlo sono necessariamente paralizzati dalle disposizioni morali dello Spirito, il quale, opponendo una inconscia resistenza, neutralizza l'azione terapeutica. È, dunque, sulla prima causa che bisogna agire. Date, se è possibile, coraggio al codardo, e voi vedrete cessare gli effetti psicologici della paura.
Ciò prova una volta di più la necessità, per l'arte del guarire, di tener conto dell'azione dell'elemento spirituale sull'organismo (Rivista Spiritista, marzo 1869, p. 65).
Non si tratta, qui, della relazione d'un solo Spirito, il quale potrebbe vedere le cose solo dal suo punto di vista, sotto un solo aspetto, oppure essere ancora dominato dai pregiudizi terreni; né si tratta di una rivelazione fatta a un solo individuo, il quale potrebbe lasciarsi ingannare dalle apparenze; né di una visione estatica che si presta alle illusioni e che, spesso, non è che il riflesso di una immaginazione esaltata; [1] ma si tratta di innumerevoli esempi forniti da tutte le categorie di Spiriti, da quella più in alto fino a quella più in basso della scala, con l'aiuto di innumerevoli intermediari disseminati su tutti i punti del globo, di modo che la rivelazione non è il privilegio di nessuno, ciascuno è in grado di vedere e di osservare, e nessuno è obbligato a credere attraverso la credenza altrui.
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[1] Vedere qui sopra, cap. VI , n. 7; e Il libro degli Spiriti, nn. 443 e 444
1° L'anima, o lo Spirito, subisce nella vita spirituale le conseguenze di tutte le imperfezioni di cui essa non si è liberata durante la vita corporea. Il suo stato, felice o infelice, è inerente al grado della sua purificazione o delle sue imperfezioni.
2° La felicità perfetta è legata alla perfezione, vale a dire alla completa purificazione dello Spirito. Ogni imperfezione è nello stesso tempo una causa di sofferenza e di privazione della letizia, così come ogni qualità acquisita è una causa di letizia e di attenuazione delle sofferenze.
3° Non c'è una sola imperfezione dell'anima che non porti con sé conseguenze dolorose e inevitabili, né v'è una sola buona qualità che non sia fonte di gioia. La somma delle pene è, perciò, proporzionale alla somma delle imperfezioni, allo stesso modo che quella delle gioie è in ragione della somma delle qualità.
L'anima che abbia, per esempio, dieci imperfezioni soffre più di quella che ne abbia solo tre o quattro. Quando di quelle dieci imperfezioni non gliene resterà che un quarto o la metà, l'anima soffrirà meno; quando poi non le resteranno più imperfezioni, allora non soffrirà più del tutto e sarà perfettamente Felice. Come, sulla Terra, colui che ha parecchie malattie soffre più di quello che ne ha una sola o di quello che non ne ha affatto, per la stessa ragione l'anima che possiede dieci qualità ha più gioie di quella che ne ha meno.
4° In virtù della legge del progresso, avendo ogni anima la possibilità di acquisire il bene che le manca e di sbarazzarsi di quanto possiede di malvagio, secondo i suoi sforzi e la sua volontà, ne consegue che l'avvenire non è precluso ad alcuna creatura. Dio non ripudia nessuno dei Suoi figli; Egli li accoglie nel Suo seno, nella misura in cui raggiungono la perfezione, lasciando così a ognuno il merito delle proprie azioni.
5° Essendo la sofferenza legata all'imperfezione, così come la letizia è legata alla perfezione, l'anima porta in sé stessa il suo castigo dappertutto, ovunque essa si trovi; per questo non c'è bisogno di un luogo circoscritto. L'inferno, dunque, si trova dappertutto, ovunque cioè vi siano delle anime sofferenti; così come il cielo si trova dappertutto, ovunque vi siano delle anime felici.
6° Il bene e il male che si commettono sono il prodotto delle buone e cattive qualità che ciascuno possiede. Non fare il bene che si è in grado di fare è dunque il risultato di una imperfezione. Se ogni imperfezione è una fonte di sofferenza, lo Spirito deve soffrire non solo per tutto il male che ha commesso, ma anche per tutto il bene che avrebbe potuto fare e che, durante la sua vita terrena, non ha fatto.
7° Lo Spirito soffre inoltre per il male che ha commesso, affinché, essendo la sua attenzione incessantemente portata sulle conseguenze di questo male, ne comprenda meglio gli inconvenienti e sia così sollecitato a correggersene.
8° Essendo la giustizia divina infinita, viene rigorosamente tenuto un conto del bene e del male; se non c'è una sola cattiva azione, un solo cattivo pensiero che non abbia le sue conseguenze fatali, neppure c'è una sola buona azione, un solo moto positivo dell'anima, in una parola il più lieve merito, che vada perduto, persino presso le persone più perverse, poiché ciò è un inizio di progresso.
9° Ogni colpa commessa, ogni male realizzato, è un debito che si è contratto e che deve essere pagato; se non è stato pagato in una esistenza, Io sarà in quella seguente o in quelle seguenti, poiché tutte le esistenze sono solidali le une con le altre. Colui che si sdebita nell'esistenza presente non dovrà pagare una seconda volta.
10° Lo Spirito subisce la pena delle sue imperfezioni, sia nel mondo spirituale, sia nel mondo corporeo. Tutte le miserie, tutte le vicissitudini che si subiscono nella vita corporea sono conseguenze delle nostre imperfezioni, sono espiazioni di colpe commesse, sia nell'esistenza presente, sia in quelle precedenti.
Dalla natura delle sofferenze e delle vicissitudini che si subiscono nella vita corporea, si può giudicare la natura delle colpe commesse in una precedente esistenza e la natura delle imperfezioni che ne sono la causa.
11° L'espiazione varia a seconda della natura e della gravità della colpa; la medesima colpa può così dar luogo a espiazioni differenti, secondo le circostanze attenuanti o aggravanti nelle quali essa è stata commessa.
12° Non esiste circa la natura e la durata del castigo, alcuna regola assoluta e uniforme. La sola legge generale è quella secondo cui ogni colpa riceve la sua punizione, e ogni buona azione la sua ricompensa, secondo il suo valore.
13° La durata del castigo è subordinata al miglioramento dello Spirito colpevole. Nessuna condanna per un determinato tempo viene mai pronunciata contro di lui. Ciò che Dio esige per mettere termine alle sofferenze è un miglioramento serio ed effettivo, e un ritorno sincero al bene.
Lo Spirito è, così, sempre l'arbitro della sua propria sorte: egli può prolungare le sue sofferenze con la sua ostinazione nel male, può attenuarle o abbreviarle con i suoi sforzi per compiere il bene.
Una condanna per un tempo determinato qualsiasi avrebbe un doppio inconveniente: quello di continuare a punire lo Spirito che si fosse migliorato, oppure quello di cessare di punirlo quando egli si trovasse ancora nel male. Dio, che è giusto, punisce il male fin tanto che esiste; cessa di punire quando il male non esiste più; [2] oppure — se si vuole — essendo il male morale, per sé stesso, una causa di sofferenza, la sofferenza dura per tanto tempo quanto sussiste il male; e l'intensità della sofferenza diminuisce nella misura in cui il male si affievolisce.
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[2] Vedere al cap. VI, n. 25, una citazione di Ezechiele.
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14° Essendo la durata del castigo subordinata al miglioramento, ne consegue che lo Spirito colpevole che non si fosse mai migliorato soffrirebbe sempre, e che, per lui, la pena sarebbe eterna.
15° Una condizione inerente all'inferiorità degli Spiriti è di non poter presagire il termine della loro situazione e di credere ch'essi soffriranno per sempre. È un castigo che sembra loro dover essere eterno. [3]
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[3] Perpetuo è sinonimo di eterno. Si dice: il limite delle nevi perpetue; i ghiacci eterni dei poli. Si dice anche: il segretario perpetuo dell'Accademia, il che non vuol dire che lo sarà in eterno, ma unicamente per un tempo illimitato. Eterno e perpetuo si usano dunque nel senso di indeterminato. In tale accezione, si può dire che le pene sono eterne, se si vuole intendere che esse non hanno una durata limitata; sono eterne per lo Spirito che non ne vede il termine.
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16° Il pentimento è il primo passo verso il miglioramento; ma esso solo non basta, c'è bisogno ancora dell'espiazione e della riparazione.
Pentimento, espiazione e riparazione sono le tre condizioni necessarie per cancellare le tracce d'una colpa e le sue conseguenze.
Il pentimento addolcisce i dolori dell'espiazione in quanto dà la speranza e prepara le vie della riabilitazione; ma soltanto la riparazione può annullare l'effetto distruggendo la causa; il perdono sarebbe una grazia e non un annullamento.
17° Il pentimento può aver luogo dappertutto e in ogni tempo; se esso è tardivo, il colpevole soffre più a lungo. L'espiazione consiste nelle sofferenze fisiche e morali — che sono la conseguenza della colpa commessa — sia fin dalla vita presente; sia, dopo la morte, nella vita spirituale; sia in una nuova esistenza corporea, finché le tracce della colpa siano cancellate.
La riparazione consiste nel fare del bene a colui cui si è fatto del male. Chi non riparai suoi torti in questa vita, per impossibilità o cattiva volontà, si ritroverà, in una ulteriore esistenza, in contatto con le medesime persone che hanno avuto di che lamentarsi nei suoi confronti, e nelle condizioni da lui stesso scelte, in maniera da poter loro dimostrare la sua dedizione e far loro tanto bene quanto male fece loro in passato.
Non tutte le colpe arrecano un pregiudizio diretto ed effettivo; in questo caso, la riparazione si realizza: facendo ciò che si doveva fare e non si è fatto, assolvendo i doveri che si sono trascurati o disconosciuti, compiendo le missioni in cui si è fallito; praticando il bene a risarcimento di ciò che si è fatto di male, vale a dire essendo umili se si è stati orgogliosi, dolci se si è stati duri, caritatevoli se si è stati egoisti, benevoli se si è stati malevoli, laboriosi se si è stati pigri, utili se si è stati inutili, sobri se si è stati dissoluti, di buon esempio se si è dato cattivo esempio ecc. È così che lo Spirito progredisce mettendo a profitto il suo passato. [4]
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[4] La necessità della riparazione è un principio di rigorosa giustizia, che si può considerare come la vera legge di riabilitazione morale degli Spiriti. Si tratta di una dottrina che finora nessuna religione ha proclamato.
Tuttavia alcune persone la respingono, perché trovano più comodo cancellare le loro cattive azioni con un semplice pentimento che costa solo delle parole e con l'aiuto di alcune formule; libere tali persone di credersi esentate: vedranno più tardi se ciò è loro sufficiente. Si potrebbe chiedere loro se questo principio non è forse consacrato dalla legge umana, e se la giustizia di Dio può essere inferiore a quella degli uomini. E, ancora, si potrebbe chiedere loro se esse si riterrebbero soddisfatte di un individuo il quale, avendole rovinate abusando della loro fiducia, si limitasse a dir loro ch'egli ne è infinitamente dispiaciuto. Perché tali persone, dovrebbero ritrarsi davanti a un obbligo che ogni onest'uomo si fa un dovere di compiere, nella misura delle sue forze?
Allorché questa prospettiva della riparazione sarà inculcata nella credenza delle masse, essa sarà un freno ben altrimenti potente di quello dell'inferno e delle pene eterne, perché tocca l'attualità della vita, e perché l'uomo comprenderà la ragion d'essere delle penose circostanze in cui si trova collocato.
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18° Gli Spiriti imperfetti sono esclusi dai mondi felici, la cui armonia verrebbe da loro turbata; essi restano nei mondi inferiori dove espiano le loro colpe attraverso le tribolazioni della vita; si purificano delle loro imperfezioni, fin quando meritano d'incarnarsi nei mondi moralmente e fisicamente più avanzati.
Se si può concepire un luogo di castigo circoscritto, questo è nei mondi di espiazione, perché è attorno a questi mondi che pullulano gli Spiriti imperfetti disincarnati, attendendo una nuova esistenza che, permettendo loro di riparare al male che hanno fatto, contribuirà al loro avanzamento.
19° Avendo lo Spirito sempre il suo libero arbitrio, lento è talvolta il suo miglioramento, e molto tenace la sua ostinazione nel male. Egli può persistervi degli anni e anche dei secoli; ma arriva sempre il momento in cui la sua caparbietà nello sfidare la giustizia di Dio si piega davanti alla sofferenza, e in cui, malgrado la sua protervia, egli riconosce la potenza superiore che lo domina. Non appena si manifestano in lui i primi barlumi del pentimento, Dio gli fa intravedere la speranza.
Nessuno Spirito si trova nella condizione di non migliorarsi mai; altrimenti sarebbe fatalmente votato a un'eterna inferiorità e sfuggirebbe alla legge del progresso, la quale sostiene provvidenzialmente tutte le creature.
20° Quali che siano l'inferiorità e la perversione degli Spiriti, Dio non li abbandona mai. Tutti hanno il loro angelo custode che veglia su di essi, spia i moti della loro anima, e fa di tutto per suscitare in loro dei buoni pensieri, il desiderio di progredire e riparare, in una nuova esistenza, il male che hanno fatto. Tuttavia la guida protettrice agisce il più delle volte in maniera occulta, senza esercitare alcuna pressione. Lo Spirito deve migliorarsi per un impulso della sua stessa volontà, e non in seguito a una qualche costrizione. Lo Spirito agisce bene o male in virtù del suo libero arbitrio, ma senza essere fatalmente spinto in un senso o nell'altro. S'egli fa del male, ne subisce le conseguenze per tutto quanto il tempo che rimane sulla cattiva strada; non appena fa un passo verso il bene, ne ottiene immediatamente gli effetti benefici.
Osservazione — Sarebbe un errore supporre che, in virtù della legge del progresso, la certezza di arrivare presto o tardi alla perfezione e alla felicità può essere un incoraggiamento a perseverare nel male, salvo a pentirsi più tardi: prima di tutto, perché lo Spirito inferiore non vede il termine della sua situazione; in secondo luogo, perché lo Spirito, essendo egli l'artefice della sua stessa disgrazia, finisce per comprendere che dipende da lui farla cessare, che quanto più a lungo egli persisterà nel male, tanto più a lungo sarà infelice, e che la sua sofferenza durerà per sempre se non vi metterà termine lui stesso. Questo sarebbe dunque, da parte sua, un calcolo falso, di cui egli sarebbe vittima per primo. Se, al contrario, secondo il dogma delle pene irrevocabili, ogni speranza gli fosse negata per sempre, egli non avrebbe alcun interesse a convertirsi al bene, che sarebbe per lui senza alcun profitto.
Davanti a questa legge, cade egualmente l'obiezione tratta dalla prescienza divina. Dio, quando crea un'anima, sa in effetti se, in virtù del suo libero arbitrio, essa prenderà la buona o la cattiva strada; Egli sa che essa sarà punita se agirà male; ma Egli sa anche che questo castigo temporaneo è un mezzo per farle comprendere il suo errore e farla rientrare sulla buona strada, dove essa presto o tardi arriverà. Secondo la dottrina delle pene eterne, Egli sa ch'essa fallirà e che è condannata in anticipo a torture senza fine.
21° Ognuno è responsabile soltanto delle sue colpe personali; nessuno porta la pena delle colpe altrui, a meno che non vi abbia dato origine, sia provocandole con il proprio esempio, sia non impedendole, pur avendone il potere.
Così, per esempio, il suicidio è sempre punito; ma colui che, con la sua durezza, spinge un individuo alla disperazione e, da qui, a distruggersi, subisce una pena ancora più grande.
22° Benché la diversità delle punizioni sia infinita, ve ne sono di quelle che sono inerenti alla inferiorità degli Spiriti, e le cui conseguenze, salvo alcune sfumature, sono quasi identiche.
La punizione, quella più immediata, soprattutto presso coloro che si sono attaccati alla vita materiale a detrimento del progresso spirituale, consiste nella lentezza della separazione dell'anima e del corpo, nelle angosce che accompagnano la morte e il risveglio nell'altra vita, nella durata del turbamento che può protrarsi per mesi e anni. Presso coloro, invece, la cui coscienza è pura, e che da vivi si sono identificati con la vita spirituale e si sono distaccati dalle cose materiali, presso costoro la separazione è rapida, senza scosse, il risveglio è tranquillo e quasi nullo.
23° Un fenomeno, assai frequente presso gli Spiriti di una certa inferiorità morale, consiste nel credersi ancora vivi. Questa illusione può protrarsi per degli anni, durante i quali essi provano tutti i bisogni, tutti i tormenti e tutte le perplessità della vita.
24° Per il criminale, la vista incessante delle sue vittime e delle circostanze del crimine è un crudele supplizio.
25° Certi Spiriti sono immersi in fitte tenebre; altri si trovano in un isolamento assoluto in mezzo allo Spazio, tormentati dal non conoscere né la loro posizione né la loro sorte. I più colpevoli soffrono torture tanto più intense, in quanto non ne vedono il termine. Molti sono condannati a non vedere gli esseri che sono loro cari. Tutti, generalmente, subiscono i mali, i dolori e le necessità con una intensità relativa a mali, dolori e necessità che essi hanno fatto subire agli altri, finché il pentimento e il desiderio della riparazione sopraggiungono ad apportarvi un alleviamento, facendo intravedere a tali colpevoli la possibilità di porre essi stessi un termine a quella situazione.
26° È un supplizio per l'orgoglioso vedere, sopra di lui, attorniati e festeggiati nella gloria, coloro ch'egli aveva disprezzato sulla Terra, mentre lui è relegato negli ultimi ranghi. È un supplizio per l'ipocrita vedersi trapassato dalla luce che mette a nudo i suoi più segreti pensieri, che tutti possono leggere, senza che lui possa occultarli o dissimularli. È un supplizio per il sensuale avere tutte le tentazioni, tutti i desideri, senza poterli soddisfare; per l'avaro, vedere il suo oro dilapidato e non poterci far nulla. È un supplizio per l'egoista, essere abbandonato da tutti e soffrire tutto quanto altri hanno sofferto a causa sua: avrà egli sete, e nessuno gli darà da bere; avrà fame, e nessuno gli darà da mangiare; nessuna mano amica stringerà la sua; nessuna voce pietosa lo consolerà. Egli non ha pensato che a sé stesso durante la sua vita, e nessuno pensa a lui e lo piange dopo la sua morte.
27° Il mezzo per evitare o attenuare le conseguenze dei propri delitti nella vita futura è quello di disfarsene quanto più possibile nella vita presente; è quello di riparare al male, per non doverlo riparare più tardi in maniera più terribile. Più si tarda a disfarsi dei propri difetti, più le conseguenze saranno penose, e più rigorosa sarà la riparazione che si dovrà compiere.
28° La situazione dello Spirito, dalla sua entrata nella vita spirituale, è quella che egli si è preparata nella vita corporea. Più tardi, gli viene data un'altra incarnazione, per l'espiazione e la riparazione attraverso nuove prove; ma egli se ne avvantaggia più o meno, a seconda del suo libero arbitrio. Se non ne trae vantaggio, sarà un compito che dovrà ricominciare ogni volta in condizioni più penose: così che di colui che soffre molto sulla Terra suol dirsi che aveva molto da espiare; coloro che godono di una felicità apparente, nonostante i loro vizi e la loro inutilità, sono certi di pagare il tutto a caro prezzo in una esistenza ulteriore. È in questo senso che Gesù ha detto: "Beati gli afflitti, perché essi saranno consolati" (Il Vangelo secondo lo Spiritismo, cap. V).
29° La misericordia di Dio è senza dubbio infinita, ma non è cieca. Il colpevole, che essa perdona, non è però esonerato, e finché egli non ha soddisfatto la giustizia, subisce le conseguenze delle sue colpe. Con il termine misericordia infinita, bisogna intendere che Dio non è inesorabile e che lascia sempre aperta la porta del ritorno al bene.
30° Le pene, essendo temporanee e subordinate alla riparazione e al pentimento, i quali dipendono dalla libera volontà dell'uomo, sono contemporaneamente castighi e rimedi, che devono aiutare a guarire le piaghe del male. Gli Spiriti in punizione sono, dunque, non quali carcerati condannati per un determinato tempo, ma quali malati in un ospedale, che soffrono sia di una malattia di cui spesso sono essi la causa, sia dei dolorosi mezzi curativi che la malattia esige. Sono come malati, dunque, che hanno la speranza di guarire e che guariscono tanto più velocemente quanto più rigorosamente seguono le prescrizioni del medico, il quale veglia su di loro con sollecitudine. Se essi prolungano le loro sofferenze per propria colpa, il medico non ha niente a che vedere con ciò.
31° Alle pene che lo Spirito subisce nella vita spirituale vanno ad aggiungersi quelle della vita corporea, che sono la conseguenza delle imperfezioni dell'uomo, delle sue passioni, del cattivo uso delle sue facoltà, e l'espiazione dei suoi errori presenti e passati. È nella vita corporea che lo Spirito ripara al male delle sue esistenze anteriori, ch'egli mette in pratica le risoluzioni prese nella vita spirituale. Si spiegano così quelle miserie e quelle vicissitudini che, di primo acchito, sembrano non avere ragion d'essere, e che sono del tutto giuste, dal momento che sono l'eredità del passato e che servono al nostro avanzamento. [5]
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[5] Vedere qui cap. VI, "Il Purgatorio", n. 3 e ss. ; e, più avanti, cap. XX , "Esempi di espiazione terrena". Ne Il Vangelo secondo lo Spiritismo, cap. V, "Beati gli afflitti".
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32° Dio, si dice, non dimostrerebbe un più grande amore verso le sue creature, se le avesse create infallibili e, di conseguenza, esenti dalle vicissitudini legate all'imperfezione?
Sarebbe occorso, per questo, ch'Egli creasse degli esseri perfetti, che non dovessero acquisire nulla, né riguardo alla conoscenza né riguardo alla moralità. Senza alcun dubbio, Egli lo poteva. Se non lo ha fatto, è perché, nella Sua saggezza, Egli ha voluto che il progresso fosse la legge generale.
Gli uomini sono imperfetti e, come tali, soggetti a vicissitudini più o meno penose; è un fatto che bisogna accettare, poiché esiste. Dedurne che Dio non è né buono né giusto sarebbe una ribellione contro di Lui.
Si tratterebbe di ingiustizia se Egli avesse creato degli esseri privilegiati, gli uni più favoriti degli altri, godendo senza alcuna fatica della felicità che altri raggiungono solo a prezzo di sofferenze o che non possono raggiungere mai. Ma dove la Sua giustizia risplende è nell'eguaglianza assoluta che presiede alla creazione di tutti gli Spiriti; tutti hanno un medesimo punto di partenza; nessuno che sia, alla sua formazione, meglio dotato degli altri; nessuno la cui marcia ascensionale sia eccezionalmente facilitata: coloro che sono giunti alla meta sono passati, come gli altri, attraverso la trafila delle prove e della inferiorità.
Ammesso questo, che cosa di più giusto della libertà d'azione lasciata a ciascuno? La strada della felicità è aperta a tutti; il fine è il medesimo per tutti; le condizioni per raggiungerlo sono le medesime per tutti; la legge incisa in tutte le coscienze è insegnata a tutti. Dio ha fatto della felicità il premio della fatica e non del favore, affinché ciascuno ne avesse il merito. Ciascuno è libero di lavorare o di non fare niente per il suo avanzamento; colui che lavora molto e velocemente ne è più presto ricompensato; colui che si smarrisce per strada o perde il suo tempo ritarda l'arrivo e non può prendersela che con sé stesso. Il bene e il male sono volontari e facoltativi; l'uomo, essendo libero, non è fatalmente spinto né verso l'uno né verso l'altro.
33° Malgrado la diversità dei generi e dei gradi di sofferenza degli Spiriti imperfetti, il codice penale della vita futura può riassumersi in tre principi.
La sofferenza è legata all'imperfezione.
Ogni imperfezione — e ogni colpa che ne è il risultato — porta con sé il suo castigo, attraverso le sue conseguenze naturali e inevitabili; così la malattia è la conseguenza degli eccessi, la noia quella dell'ozio, senza che vi sia bisogno di una condanna speciale per ogni colpa e per ogni individuo.
Ogni uomo, potendo disfarsi delle sue imperfezioni per effetto della sua volontà, può preservarsi dai mali che ne sono la conseguenza e assicurarsi la felicità futura.
Tale è la legge della giustizia divina: a ciascuno secondo le sue opere, così in Cielo come in Terra.
Capitolo VIII - GLI ANGELI
Gli angeli secondo la Chiesa
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[1] Abbiamo tratto questo riassunto dalla lettera pastorale di Monsignor Gousset, cardinale arcivescovo di Reims, per la Quaresima del 1864. Esso può, dunque, considerarsi come quello sui demoni, tratto dalla medesima fonte e citato nel capitolo successivo quale l'ultima espressione del dogma della Chiesa su questo punto.
Tale è, secondo la fede, il piano divino nell'opera della creazione, piano maestoso e completo come si addiceva alla saggezza eterna. Così concepito, esso offre ai nostri pensieri l'essere in tutti i suoi gradi e in tutte le sue condizioni. Nella sfera più elevata compaiono l'esistenza e la vita puramente spirituali; nell'ultimo ordine, l'esistenza e la vita puramente materiali; e intermediariamente, separandole l'una dall'altra, una meravigliosa unione delle due sostanze, una vita allo stesso tempo comune allo spirito intelligente e al corpo organizzato.
La nostra anima è di una natura semplice e indivisibile, ma è limitata nelle sue facoltà. L'idea che noi abbiamo della perfezione ci fa comprendere che ci possono essere altri esseri semplici quanto essa, e superiori per le loro qualità e i loro privilegi. L'anima è grande e nobile, ma è associata alla materia, è servita da organi fragili ed è limitata nella sua azione e nella sua potenza. Perché non dovrebbero esserci altre nature ancora più nobili, libere da questa schiavitù e da questi ostacoli, dotate di una forza più grande e di una attività incomparabile? Prima che Dio collocasse gli uomini sulla Terra perché Lo conoscessero, L'amassero e Lo servissero, non aveva forse Egli già dovuto chiamare altre creature a comporre la Sua corte celeste, perché Lo adorassero nella dimora della Sua gloria? Dio, infine, riceve dalle mani dell'uomo il tributo d'onore e l'omaggio di questo Universo. C'è dunque da meravigliarsi ch'Egli riceva dalle mani dell'angelo l'incenso e la preghiera dell'uomo? Se, quindi,' gli angeli non esistessero, la grande opera del Creatore non avrebbe il coronamento e la perfezione di cui era suscettibile. Questo mondo, che attesta la Sua onnipotenza, non sarebbe più il capolavoro della Sua saggezza; la nostra ragione stessa, per quanto debole e fragile, potrebbe facilmente concepire un Dio più completo e più perfetto.
In ogni pagina dei libri sacri dell'Antico e del Nuovo Testamento, si fa menzione di queste sublimi intelligenze, in pie invocazioni o in brani di storia. Il loro intervento appariva manifestamente nella vita dei patriarchi e dei profeti. Dio si serve del loro ministero sia per trasmettere le Sue volontà, sia per annunciare gli eventi futuri; quasi sempre ne fa gli organi della Sua giustizia o della Sua misericordia. La loro presenza è congiunta alle diverse circostanze della nascita, della vita e della passione del Salvatore; il loro ricordo è inseparabile da quello dei grandi uomini e da quello dei più importanti fatti dell'antichità religiosa. La credenza negli angeli si trova anche in seno al politeismo e nelle favole mitologiche, perché la credenza di cui si parla è antica e universale quanto il mondo. Il culto che i pagani tributavano ai buoni e cattivi geni altro non era che una falsa applicazione della verità, una traccia degenerata del dogma primitivo.
Le parole del santo Concilio Lateranense contengono una distinzione fondamentale tra gli angeli e gli uomini. Esse ci insegnano che i primi sono dei puri Spiriti, mentre questi altri sono composti di un corpo e di un'anima; vale a dire che la natura angelica si sostiene da sé stessa, non solo senza mescolanza alcuna, ma anche senza alcuna possibile associazione reale con la materia, per quanto leggera e sottile la si supponga. Invece, la nostra anima, egualmente spirituale, è associata al corpo in maniera da formare con esso una sola e stessa persona. E tale è essenzialmente la sua destinazione.
Finché perdura questa unione così intima dell'anima con il corpo, queste due sostanze hanno una vita comune ed esercitano l'una sull'altra un'influenza reciproca. L'anima non può affrancarsi interamente dalla condizione imperfetta che per lei ne risulta: le sue idee arrivano al corpo attraverso i sensi, attraverso il confronto degli oggetti esteriori, e sempre sotto immagini più o meno apparenti. Da ciò deriva il fatto per cui essa non può contemplare sé stessa, né può rappresentarsi Dio e gli angeli senza immaginare una qualche loro forma visibile e palpabile. È per questo che gli angeli, per farsi vedere dai santi e dai profeti, hanno dovuto fare ricorso a delle figure corporee; ma queste figure non erano che dei corpi aerei ch'essi facevano muovere senza identificarsi con loro; oppure erano degli attributi simbolici in rapporto con la missione di cui erano incaricati.
Il loro essere e i loro movimenti non sono localizzati né circoscritti in un punto fisso e delimitato dello Spazio. Non essendo essi legati ad alcun corpo, non possono essere né fermati né limitati, come invece lo siamo noi, da altri corpi. Non occupano alcun posto e non riempiono alcun vuoto; ma, così come la nostra anima è tutta intera nel nostro corpo e in ciascuna delle sue parti, anch'essi sono tutti interi, e quasi simultaneamente, su tutti i punti e in tutte le parti del mondo. Più veloci del pensiero, essi possono essere dappertutto in un batter d'occhio e agire da soli, senza altri ostacoli ai loro disegni che la volontà di Dio e la resistenza della libertà umana.
Mentre noi siamo costretti a vedere solo a poco a poco, e in una certa misura, le cose che sono al di fuori di noi; mentre le verità di ordine soprannaturale ci appaiono come in un enigma e in uno specchio, secondo l'espressione dell'apostolo san Paolo; essi vedono senza sforzo ciò che a loro importa sapere ed entrano immediatamente in rapporto con l'oggetto del loro pensiero. Le loro conoscenze non sono il risultato dell'induzione e del ragionamento, ma di quella intuizione chiara e profonda che abbraccia al tempo stesso il genere e le specie che ne derivano, i principi e le conseguenze che ne provengono.
La distanza dei tempi, la differenza dei luoghi, la molteplicità degli oggetti non possono produrre alcuna confusione nei loro spiriti.
L'essenza divina, essendo infinita, è incomprensibile; essa ha dei misteri e delle profondità che gli angeli non possono penetrare. I disegni particolari della Provvidenza sono loro celati; ma essa ne disvela loro il segreto, allorché li incarica, in certe circostanze, di annunciarli agli uomini.
Le comunicazioni di Dio agli angeli, e quelle degli angeli tra di loro, non si fanno, come avviene fra di noi, per mezzo di suoni articolati o di altri segni sensibili. Le pure intelligenze non hanno bisogno né degli occhi per vedere né delle orecchie per sentire; esse non hanno neppure l'organo della voce per manifestare i loro pensieri; questo intermediario, usuale nelle nostre relazioni, non è loro necessario. Ma esse comunicano i loro sentimenti in un modo, solo a esse peculiare e che è del tutto spirituale. Per essere compresi, è loro sufficiente volerlo.
Dio soltanto conosce il numero degli angeli. Questo numero, senza dubbio, non potrebbe essere infinito, e in effetti non lo è; ma, secondo gli autori sacri e i santi dottori, esso è molto considerevole e veramente prodigioso. Se è naturale commisurare il numero degli abitanti di una città alla sua grandezza e alla sua estensione, non essendo la Terra che un atomo in confronto al firmamento e alle immense regioni dello Spazio, bisogna concludere che il numero degli abitanti del cielo e dell'aria è molto più grande di quello degli uomini.
Poiché la maestà dei re trae il suo splendore dal numero dei loro sudditi, devi loro funzionari e dei loro servitori, che cosa c'è di meglio, per darci un'idea della maestà del Re dei re, di questa innumerevole moltitudine di angeli, i quali popolano il cielo e la terra, il mare e gli abissi? E che cosa di meglio della dignità di coloro che se ne stanno di continuo prosternati o in piedi davanti al suo trono?
I Padri della Chiesa e i teologi generalmente insegnano che gli angeli sono distribuiti in tre grandi gerarchie o principati, e ogni gerarchia in tre compagnie o cori.
Quelli della prima e più alta gerarchia sono designati a seguito delle funzioni che esercitano in cielo. Quelli chiamati Serafini sono detti così, perché sono come ardenti, avanti a Dio, degli ardori della carità; i Cherubini, detti così perché sono un riflesso luminoso della Sua saggezza; i Troni, perché proclamano la Sua grandezza e ne fanno risplendere il fulgore.
Gli angeli della seconda gerarchia ricevono i loro nomi dalle operazioni che sono loro affidate nel governo generale dell'Universo, e sono: le Dominazioni, che assegnano le loro missioni e i loro incarichi agli angeli degli ordini inferiori; le Virtù, che compiono i prodigi reclamati dai grandi interessi della Chiesa e del genere umano; la Potestà, che proteggono con la loro forza e la loro vigilanza le leggiche reggono il mondo fisico e morale.
Gli angeli della terza gerarchia si suddividono la direzione delle società e delle persone, e sono: i Principati, preposti ai regni, alle provincie e alle diocesi; gli Arcangeli, che trasmettono i messaggi di alta importanza; gli Angeli custodi, che accompagnano ognuno di noi, per vegliare sulla nostra sicurezza e sulla nostra santificazione.»
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[2] Concilio Lateranense.
Confutazione
Questa suddivisione manca evidentemente di chiarezza e non si accorda con l'osservazione; essa assomiglia alla teoria dei quattro elementi, teoria poi caduta di fronte ai progressi della scienza. Ammettiamo tuttavia questi tre termini: la creatura spirituale, la creatura umana e la creatura corporea; tale, si dice, è il piano divino, piano maestoso e completo, come si addiceva alla saggezza eterna. Notiamo prima di tutto che, fra questi tre termini, non c'è alcun legame necessario; che si tratta di tre distinte creazioni, formate successivamente; e che dall'una all'altra c'è una soluzione di continuità.
Nella natura, invece, tutto si concatena, tutto ci dimostra una straordinaria legge di unità, di cui tutti gli elementi, i quali altro non sono che trasformazioni gli uni degli altri, hanno un loro tratto d'unione. Questa teoria è vera, nel senso che questi tre termini evidentemente esistono, solo che essa è incompleta: vi mancano i punti di contatto, così come è facile dimostrare.
Tuttavia il Concilio Lateranense, concilio ecumenico che ha fatto testo in materia di ortodossia, dice: " Noi crediamo fermamente che ci sia un solo vero Dio, eterno e infinito, il quale all'inizio del tempo, ha tratto contemporaneamente dal nulla l'una e l'altra creatura, quella spirituale e quella corporea". Per inizio del tempo non può intendersi che quello dell'eternità trascorsa, poiché il tempo è infinito, come lo Spazio: non ha né inizio né fine.
Questa espressione — l'inizio del tempo — è una figura che implica l'idea di una anteriorità illimitata. Il Concilio Lateranense crede, dunque, fermamente che le creature spirituali e le creature corporee sono state formate simultaneamente e tratte contemporaneamente dal nulla in un'epoca indeterminata del passato. A che cosa si riduce allora il testo biblico, il quale fissa questa creazione a seimila anni fa dei giorni nostri? Ammettendo che sia questo l'inizio dell'Universo visibile, di certo, però, non è quello del tempo. A chi credere? Al Concilio o alla Bibbia
Se la destinazione essenziale dell'anima è quella di essere unita a un corpo materiale; se, per sua natura e secondo lo scopo provvidenziale della sua creazione, questa unione è necessaria alla manifestazione delle sue facoltà, bisogna concludere che, senza il colpo, l'anima umana è un essere incompleto. Ora, per rimanere ciò ch'essa è per sua destinazione, dopo aver abbandonato un corpo, occorre che ne riprenda un altro, la qual cosa ci conduce alla pluralità forzata delle esistenze, altrimenti detta reincarnazione in perpetuo. È veramente strano che un concilio, stimato come una delle luci della Chiesa, abbia identificato l'essere spirituale e l'essere materiale al punto che non possono praticamente esistere l'uno senza l'altro, poiché la condizione essenziale della loro creazione è quella d'essere uniti.
6. Il quadro gerarchico degli angeli ci spiega che parecchi ordini hanno fra le loro attribuzioni, il governo del mondo fisico e dell'Umanità, e che essi sono stati creati a questo scopo. Ma, secondo la Genesi, il mondo fisico e l'Umanità non esistono che da seimila anni; che cosa facevano, dunque, questi angeli anteriormente a questa epoca, durante l'eternità, dal momento che gli oggetti delle loro occupazioni non esistevano? Gli angeli sono stati creati da tutta l'eternità? Così deve essere, poiché essi servono alla glorificazione dell’Altissimo. Se Dio li avesse creati in un'epoca determinata qualsiasi, Egli sarebbe stato fino a quel momento, vale a dire per un'eternità, senza adoratori.
È detto ancora: "Le idee le giungono attraverso i sensi, attraverso la comparazione degli oggetti esteriori". È questa una dottrina filosofica in parte vera, ma non in senso assoluto. Secondo l'eminente teologo, è condizione inerente alla natura dell'anima ricevere le idee solo attraverso i sensi; ma egli dimentica le idee innate, le facoltà a volte così trascendenti, l'intuizione delle cose che il bambino reca con sé fin dalla nascita e che non deve ad alcuna istruzione. Attraverso quale senso, quei giovani pastori, veri strumenti calcolatori naturali, da stupire gli scienziati, hanno acquisito le idee necessarie alla soluzione quasi istantanea dei più complicati problemi? Altrettanto si può dire di certi musicisti, pittori e linguisti precoci.
"Le conoscenze degli angeli non sono il risultato dell'induzione e del ragionamento"; essi sanno, perché sono angeli, senza aver bisogno d'imparare. Dio li ha creati così: l'anima, al contrario, deve imparare. Se l'anima riceve le idee solo per mezzo degli organi corporali, quali saranno le idee che può avere l'anima di un bambino, morto di lì a pochi giorni, ammettendo, con la Chiesa, ch'egli non rinasce?
Se acquisisce nuove conoscenze dopo la vita attuale, ciò indica che può progredire. Senza l'ulteriore progresso dell'anima, si arriva a delle conseguenze assurde; con il progresso, si arriva alla negazione di tutti i dogmi fondati sul suo stato stazionario: la sorte irrevocabile, le pene eterne ecc. Se l'anima progredisce, dove si arresta il progresso? Non c'è alcuna ragione perché essa non raggiunga il grado degli angeli o puri Spiriti. Se essa può arrivarvi, non c'era alcuna necessità di creare degli esseri speciali e privilegiati, esenti da ogni fatica e che godono dell'eterna felicità senza aver fatto nulla per conquistarla, mentre altri esseri meno favoriti non ottengono la suprema felicità che a prezzo di lunghi e crudeli sofferenze e di prove durissime. Dio lo può, senza dubbio, ma se solo si ammette l'infinità delle sue perfezioni, senza le quali Dio non ci sarebbe; bisogna anche ammettere ch'Egli non fa nulla d'inutile, né alcuna cosa che smentisca la sovrana giustizia e la sovrana bontà.
Non significa forse svalutare la Divinità il fatto di assimilare la Sua gloria al fasto dei sovrani della Terra? Questa idea, inculcata nello spirito delle masse ignoranti, falsa l'opinione che uno si fa della Sua vera grandezza; Dio è sempre ridotto alle meschine proporzioni dell’Umanità. Supporre che Egli abbia bisogno di avere milioni di adoratori, incessantemente prosternati o in piedi davanti a Lui, vuol dire attribuirGli le debolezze dei monarchi, dispotici e orgogliosi, dell'Oriente. Che cosa rende veramente grandi i sovrani? Forse il numero e lo splendore dei loro cortigiani? No! È la loro bontà e la loro giustizia, è il meritato titolo di padri dei loro sudditi. Ci si domanda se c'è qualcosa di più adeguato — per darci un'idea della maestà di Dio — della moltitudine degli angeli che compongono la sua corte. Sì, certamente. C'è qualcosa di meglio di questo, ed è quello di rappresentarLo sovranamente buono, giusto e misericordioso verso tutte le Sue creature; e non come un Dio collerico, geloso, vendicativo, inesorabile, sterminatore, parziale, che crea per sua propria gloria quegli esseri privilegiati, agevolati da tutti i doni, nati per la felicità eterna, mentre agli altri fa conquistare dolorosamente la felicità e punisce, con una eternità di supplizi, un attimo di errore..."
Gli angeli secondo lo Spiritismo
Le anime, o Spiriti, sono create semplici e ignoranti, vale a dire senza conoscere e senza coscienza del bene e del male, ma atte ad acquisire tutto ciò che loro manca. Esse l'acquisiscono per mezzo del lavoro; il fine, che è la perfezione, è il medesimo per tutte; vi arrivano più o meno prontamente, in virtù del loro libero arbitrio e in ragione dei loro sforzi; tutte hanno da attraversare le medesime fasi, da compiere il medesimo lavoro. Dio non fa la parte né più larga né più facile agli uni piuttosto che agli altri, poiché tutti sono Suoi figli, ed essendo Egli giusto non ha preferenze per nessuno. Egli dice loro: "Ecco la legge che deve essere vostra regola di condotta; essa sola può condurvi al fine; tutto ciò che è conforme a questa legge è il bene, tutto ciò che è a lei contrario è il male. Voi siete liberi di osservarla o infrangerla, e voi sarete così gli arbitri della vostra stessa sorte". Dio non ha dunque creato il male; tutte le Sue leggi sono per il bene; è l'uomo, lui stesso, che ha creato il male infrangendo le leggi di Dio; se egli le osservasse scrupolosamente, non si allontanerebbe mai dalla buona strada.
Capitolo IX - I DEMONI
Origine della credenza nei demoni
La credenza in una potenza superiore è istintiva presso gli uomini; così la si ritrova, sotto diverse forme, in tutte le epoche del mondo. Ma se gli uomini, al grado di progresso intellettivo cui sono oggi arrivati, ancora discutono sulla natura e sugli attributi di questa potenza, quanto più imperfette devono essere state le loro nozioni su questo soggetto, nell'infanzia dell'Umanità!
Di fatto, più l'uomo si avvicina allo stato primitivo, più in lui domina l'istinto, come ancora si può vedere presso i popoli selvaggi e barbari dei nostri giorni; ciò che lo preoccupa maggiormente o, meglio, ciò che lo occupa esclusivamente è la soddisfazione dei bisogni materiali, dal momento che non ne ha altri. L'unico senso che può renderlo disponibile alle gioie puramente morali si sviluppa soltanto col tempo e gradualmente; l'anima ha la sua infanzia, la sua adolescenza e la sua maturità, come il corpo umano. Ma per raggiungere la maturità che la rende capace di comprendere le cose astratte, quali evoluzioni deve essa attraversare nell'Umanità! Per quante esistenze deve essa passare!
Ma, senza risalire alle ere primitive, osserviamo attorno a noi gli abitanti delle nostre campagne e domandiamoci quali sentimenti d'ammirazione risvegliano in loro lo splendore del Sole che si leva, la volta stellata, il cinguettio degli uccelli, il mormorio delle onde chiare, i prati smaltati di fiori! Per loro, il Sole si leva perché ne ha l'abitudine e, purché esso dia calore abbastanza da maturare i raccolti e tale da non bruciarli, questo è tutto ciò che essi chiedono. Se guardano il cielo è solo per sapere se l'indomani farà cattivo o bel tempo. Che gli uccelli cantino o no per loro è perfettamente uguale, purché non mangino il loro grano; alle melodie dell'usignolo preferiscono il chiocciare dei polli e il grugnito dei loro porci. Ciò che domandano ai ruscelli, limpidi o fangosi che siano, è di non prosciugarsi e di non Mondarli. Ai prati domandano di dare buona erba, con o senza fiori. Questo è tutto ciò che desiderano gli abitanti delle nostre campagne; diciamo di più, tutto ciò che essi comprendono della natura. E, tuttavia, sono già lontani dagli uomini primitivi!
Per lungo tempo, l'uomo non comprese altro che il bene e il male fisico; il sentimento del bene morale e del male morale segnò un progresso nell'intelligenza umana; soltanto allora l'uomo intravide la spiritualità e comprese che la potenza sovrumana è al di fuori del mondo visibile, e non nelle cose materiali. Questa fu l'opera di alcune menti elette, le quali non poterono tuttavia oltrepassare certi limiti.
Questi attributi sono il punto di partenza, la base di tutte le dottrine religiose; i dogmi, il culto, le cerimonie, le usanze, la morale, tutto è in rapporto con l'idea più o meno giusta, più o meno elevata che ci si fa di Dio, dal feticismo fino al Cristianesimo. Se l'essenza intima di Dio è ancora un mistero per la nostra intelligenza, noi tuttavia comprendiamo questo mistero meglio di quanto lo sia mai stato, grazie agli insegnamenti del Cristo. Il Cristianesimo, in accordo riguardo a ciò con la ragione, ci insegna che:
Dio è unico, eterno, immutabile, immateriale, onnipotente sovranamente giusto e buono, in tutte le sue perfezioni.
Così come è detto altrove (cap. VI, "La dottrina delle pene eterne"): "Se si togliesse la più piccola parte di uno solo degli attributi di Dio, non si avrebbe più Dio, poiché potrebbe esistere un essere più perfetto". Questi attributi, nella loro più assoluta pienezza, sono dunque il criterio di tutte le religioni, la misura della verità di ciascuno dei principi che esse insegnano. Perché uno di questi principi sia vero, è necessario che non colpisca nessuna delle perfezioni di Dio. Vediamo se accade così anche per la comune dottrina dei demoni.
I demoni secondo la Chiesa
Satana esiste da tutta l'eternità, come Dio, o è posteriore a Dio? Se esiste da tutta l'eternità, è increato e, di conseguenza è l'eguale di Dio. Dio, allora, non è più unico; c'è il Dio del bene e il Dio del male.
È egli posteriore a Dio? Allora è una creatura di Dio. Poiché non pratica che il male, poiché è incapace di fare il bene e di pentirsi, Dio ha creato un essere votato al male in perpetuo. Se il male non è opera di Dio, ma quella di una delle sue creature predestinate a farlo, Dio ne è pur sempre il primo autore, e allora Egli non è infinitamente buono. Dicasi la stessa cosa di tutti gli esseri malvagi chiamati demoni.
«Dio, che, per essenza, è la bontà e la santità, non li aveva creati malvagi e malefici. La Sua mano paterna, che si compiace di diffondere su tutte le Sue opere un riflesso delle Sue infinite perfezioni, li aveva colmati dei Suoi più magnifici doni. Alle qualità eccellentissime della loro natura, Egli aveva aggiunto le elargizioni della Sua grazia; li aveva resi del tutto simili agli Spiriti sublimi che sono nella gloria e nella felicità; ripartiti in tutti i loro ordini e mescolati fra tutti i loro ranghi, essi avevano il medesimo fine e i medesimi destini; il loro capo è stato il più bello degli arcangeli. Avrebbero potuto anch'essi meritare di essere confermati per sempre nella giustizia e ammessi a godere eternamente della felicità dei cieli. Quest'ultimo favore sarebbe stato in cima a tutti gli altri favori di cui era oggetto; ma doveva essere il premio della loro docilità, ed essi se ne sono resi indegni; l'hanno perduto per una rivolta sconsiderata e insensata.
Qual è stato lo scoglio della loro perseveranza? Quale verità hanno disconosciuto? Quale atto di fede e di adorazione hanno rifiutato a Dio? La Chiesa e gli annali delle Sacre Scritture non lo dicono in maniera evidente, ma sembra certo che non abbiano accettato né la mediazione del Figlio di Dio, né l'esaltazione della natura umana in Gesù Cristo.
Il Verbo divino, creatore di tutte le cose è anche l'unico mediatore e salvatore in Cielo e in Terra. Il fine soprannaturale è stato dato agli angeli e agli uomini soltanto in previsione della sua incarnazione e dei suoi meriti, poiché non c'è alcuna proporzione tra le opere degli Spiriti anche più eminenti e questa ricompensa, che altro non è che Dio stesso; nessuna creatura sarebbe potuta pervenirvi senza questo intervento meraviglioso e sublime di carità. Ora, per colmare la distanza infinita che separa l'essenza divina dalle opere delle Sue mani, bisognava ch'Egli riunisse nella Sua persona i due estremi e che associasse alla Sua divinità la natura dell'angelo o quella dell'uomo. Egli fece la scelta della natura umana.
Questo disegno, concepito da tutta l'eternità, fu manifestato agli angeli molto prima della sua esecuzione. L'Uomo-Dio fu loro mostrato nell'avvenire come Colui che avrebbe dovuto confermarli nella grazia e introdurli nelle gloria, a condizione ch'essi Lo adorassero durante la Sua missione sulla Terra, e in cielo nei secoli dei secoli. Rivelazione in sperata, visione sublime per i cuori generosi e riconoscenti, ma mistero profondo, impressionante per gli Spiriti superbi! Questo fine soprannaturale, questo immenso peso di gloria che veniva loro proposto non sarebbe dunque stato unicamente la ricompensa dei loro meriti personali! Mai avrebbero potuto attribuirne a sé stessi i titoli e il possesso! Un mediatore tra loro e Dio! Quale ingiuria era stata arrecata alla loro dignità! La preferenza immotivata accordata alla natura umana! Quale ingiustizia! Quale oltraggio scagliato contro i loro diritti! Questa Umanità, che è a loro così inferiore, la vedranno, un giorno, deificata attraverso la sua unione con il Verbo, e assisa alla destra di Dio, su un trono risplendente? Accetteranno infine che essa offra a Dio eternamente l'omaggio della sua adorazione?
Lucifero e la terza parte degli angeli soggiacquero a questi pensieri di orgoglio e di gelosia. San Michele e, con lui, la maggior parte degli angeli esclamarono: "Chi è simile a Dio? Egli è il padrone dei sui doni e il Signore sovrano di tutte le cose. Gloria a Dio e all'Agnello che sarà immolato per la salvezza del mondo!" Ma il capo dei ribelli, dimenticando che era debitore verso il suo Creatore della propria nobiltà e delle proprie prerogative, dando retta solo alla sua sconsideratezza, disse: "Sono io quello che salirà in cielo. Stabilirò la mia dimora al di sopra degli astri. Mi siederò sul monte dell'Alleanza, a fianco dell'Aquilone. Dominerò le nubi più elevate e sarò simile all'Altissimo". Coloro che condividevano le sue idee ne accolsero le parole con un mormorio d'approvazione; e se ne trovavano di tutti gli ordini della gerarchia; ma la loro moltitudine non li mise al riparo dal castigo.»
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[1] Le seguenti citazioni sono tratte dalla lettera pastorale di Monsignor il cardinale Gousset, cardinale-arcivescovo di Reims, per la Quaresima del 1865. Per i meriti personali e per la posizione dell'Autore, tali citazioni possono essere considerate come l'ultima espressione della Chiesa sulla dottrina dei demoni.
1°. Se Satana e i demoni erano degli angeli, ciò significa che erano perfetti. Come, essendo perfetti, hanno potuto fallire e disconoscere a tal punto l'autorità di Dio, alla cui presenza essi si trovavano? Si potrebbe ancora comprendere che, se fossero arrivati a questo eccelso grado soltanto gradualmente e dopo essere passati attraverso la trafila dell'imperfezione, avrebbero potuto avere un'incresciosa ricaduta; ma ciò che rende la cosa più incomprensibile è che ci siano stati presentati come esseri che erano stati creati perfetti.
La conseguenza di tale teoria è questa: Dio aveva voluto creare in loro degli esseri perfetti, poiché li aveva colmati di tutti i doni. E si è sbagliato. Dunque, secondo la Chiesa, Dio non è infallibile. [2]
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[2] Questa mostruosa dottrina è affermata da Noè quando dice (Genesi 6:6-7): Al Signore si pentì d'aver fatto l'uomo sulla Terra, e se ne addolorò in cuor suo. E il Signore disse: "Io sterminerò dalla faccia della Terra l'uomo che ho creato: dall'uomo al bestiame, ai rettili, agli uccelli dei cieli; perché mi pento di averli fatti"».
Un Dio che si pente di ciò che ha fatto non è né perfetto né infallibile: dunque non è Dio. Queste sono, tuttavia, le parole che la Chiesa proclama come verità sante. E neppure si comprende troppo che cosa ci sia di comune tra gli animali e la perversità degli uomini, per meritare gli animali il loro sterminio.
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2°. Poiché né la Chiesa né gli Annali delle Sacre Scritture spiegano alcunché sulla causa della rivolta degli angeli contro Dio — sembra soltanto certo ch'essa fosse da ricercarsi nel loro rifiuto di riconoscere la missione futura del Cristo — quale valore può mai avere il quadro così preciso e dettagliato della scena che ebbe luogo in tale circostanza? A quale fonte si sono attinte parole così chiare, riportate come se fossero state pronunciate, e fino ai semplici mormorii? Delle due cose, l'una: o la scena è vera, o non lo è. Se è vera, non vi è alcuna incertezza; e allora perché la Chiesa non tronca la questione? Se la Chiesa e la Storia tacciono, se la causa sembra soltanto certa, allora non si tratta che di una supposizione, e la descrizione della scena è frutto dell'immaginazione. [3]
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[3] Si trova in Isaia, cap. XIV, v. 11 e ss.: "Il tuo fasto e il suono dei tuoi salteri sono stati fatti scendere nel soggiorno dei morti; sotto di te sta un letto di vermi, e i vermi sono la tua coperta. Come mai sei caduto dal cielo, astro mattutino, figlio dell'aurora? Come mai sei atterrato, tu che calpestavi le nazioni? Tu dicevi in cuor tuo: 'Io salirò in cielo, innalzerò il mio trono al di sopra delle stelle di Dio, mi siederò sul monte dell'assemblea, nella parte estrema del settentrione; salirò sulle sommità delle nubi, sarò simile all'Altissimo'. Invece ti hanno fatto discendere nel soggiorno dei morti, nelle profondità della fossa! Coloro che ti vedono fissano in te lo sguardo, ti esaminano attentamente e dicono: 'È questo l'uomo che faceva tremare la Terra, che agitava i regni, che riconduceva il mondo in un deserto, ne distruggeva le città e non rimandava mai liberi a casa i suoi prigionieri?'"
Queste parole del profeta non si riferiscono alla rivolta degli angeli, ma sono un'allusione all'orgoglio e alla caduta del re di Babilonia, il quale teneva gli Ebrei in cattività, come attestano gli ultimi versetti. Il re di Babilonia è designato, per allegoria, con il nome di Lucifero, ma non vi è fatta alcuna menzione della scena sopra descritta. Le parole sono quelle che il re diceva in cuor suo; egli si poneva, per orgoglio, al di sopra di Dio, il cui popolo egli teneva prigioniero. La profezia, circa la liberazione del popolo ebreo, la rovina di Babilonia e la sconfitta degli Assiri è, d'altra parte, l'esclusivo argomento di questo capitolo.
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3°. Le parole attribuite a Lucifero rivelano una ignoranza stupefacente in un arcangelo che, per sua natura e grado raggiunto, non deve essere partecipe — riguardo all'organizzazione dell'Universo — degli errori e dei pregiudizi, che gli uomini hanno commesso, finché non siano stati dalla Scienza chiariti. Come, allora, poteva dire che avrebbe fissato la sua dimora al di sopra degli astri, dominando le nubi più alte?
Si tratta sempre dell'antica credenza che immagina la Terra come centro dell'Universo, il cielo come se fosse formato da nubi, estendendosi fino alle stelle, e che immagina limitata la regione di queste, che l'Astronomia invece ci mostra disseminata all'infinito nell'infinito Spazio! Sapendo, come oggi si sa, che le nubi non si innalzano per più di due leghe dalla superficie terracquea, e dicendo che le avrebbe dominate da più in alto, riferendosi alle montagne, sarebbe stato necessario che l'osservazione partisse dalla Terra, e che questa fosse, di fatto, la dimora degli angeli. Dato, però, che questa si trova in una regione superiore, inutile sarebbe stato innalzarsi al di sopra delle nubi. Imprestare, però, agli angeli un linguaggio intriso di ignoranza significa confessare che gli uomini contemporanei sono più eruditi degli angeli. La Chiesa ha sempre sbagliato strada, non tenendo mai conto dei progressi della Scienza.
"Le Scritture e la Tradizione denominano cielo il luogo in cui erano stati collocati gli angeli al momento della loro creazione. Ma questo non era il cielo dei cieli, il cielo della visione beatificante, dove Dio si mostra di fronte ai suoi eletti, che Lo contemplano chiaramente e senza sforzi. Infatti, lì non c'è mai né possibilità né pericolo di peccato; la tentazione e il dubbio sono lì sconosciuti; la giustizia, la pace e la gioia vi regnano immutabili; la santità e la gloria sono imperiture. Era, dunque, un'altra regione celeste, una sfera luminosa e fortunata, questa in cui sostavano tanto nobili creature, favorite dalle divine comunicazioni che esse avrebbero dovuto ricevere con fede e umiltà, finché fossero ammesse nella conoscenza della Sua realtà, essenza stessa di Dio."
Da quanto precede si deduce che gli angeli decaduti appartenevano a una categoria meno elevata e perfetta, non avendo ancora raggiunto il luogo supremo, nel quale l'errore è impossibile. E sia pure. Ma allora c'è un'evidente contraddizione in questa affermazione: "Dio li aveva creati in tutto simili agli Spiriti sublimi; suddivisi in tutti gli ordini e distribuiti in tutte le classi, avevano il medesimo fine e identici destini; e il loro capo era il più bello degli arcangeli". Ora, in tutto simili agli altri, non potevano essere loro inferiori in natura; identici nelle categorie, non potevano stare in un luogo particolare. Quindi l'obiezione sussiste intatta.
Dicono: "Questo piano (l'intervento del Cristo), concepito fin da tutta l'eternità, fu manifestato agli angeli molto prima della sua esecuzione". Dio quindi sapeva, e da tutta l'eternità, che gli angeli, tanto quanto gli uomini, avrebbero avuto bisogno di questo intervento. Anche di più: il Dio onnisciente sapeva, dunque, che alcuni tra questi angeli avrebbero fallito, affrontando così l'eterna condanna e trascinando a egual sorte una parte dell'Umanità. E così, di proposito, condannava previamente il genere umano, cioè la sua stessa creazione. A questo ragionamento non è possibile sfuggire, poiché in altro modo dovremmo ammettere l'incoscienza divina, proclamando la non prescienza di Dio. Da parte nostra è impossibile identificare una tale creazione con la sovrana bontà. In entrambi i casi, vediamo la negazione di attributi, senza la cui assoluta pienezza Dio non sarebbe Dio.
L'inutilità del pentimento e l'impossibilità della rigenerazione, queste cose sì comporterebbero la negazione della bontà divina. Ammessa tale ipotesi, si potrebbe anche dire, rigorosamente ed esattamente, che "questi angeli fin dalla loro creazione, visto che Dio non poteva ignorarlo, erano votati in perpetuo al male e predestinati a diventare demoni, per trascinare gli uomini al male".
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[4] Vedere al cap. VI, n. 25, citazione di Ezechiele.
«Non appena la rivolta si manifestò nel linguaggio degli Spiriti, cioè nell'arroganza dei loro pensieri, essi furono banditi dalla dimora celeste e precipitati nell'abisso. Con queste parole noi intendiamo dire che furono gettati in un luogo di supplizi nel quale soffrono la pena del fuoco, secondo il testo del Vangelo, che è la parola stessa del Salvatore: "Andatevene, maledetti, al fuoco eterno, preparato per il demonio e i suoi angeli". San Pietro espressamente dice: "Dio li mandò in catene e li avviò alle torture infernali, senza, tuttavia, che dovessero stare là perpetuamente, visto che solo alla fine del mondo sarebbero stati imprigionati per sempre con i reprobi". Al presente, Dio permette anzi che essi occupino un posto nella Creazione alla quale essi appartengono, nell'ordine delle cose identiche alla loro esistenza, nelle loro relazioni infine che dovevano avere con gli uomini, e delle quali fanno abuso nel modo più pernicioso.
Mentre alcuni stanno nella loro tenebrosa dimora, servendo da strumento alla giustizia divina, contro le disgraziate anime ch'essi hanno sedotto, altri, in numero infinito, formano legioni che risiedono negli strati inferiori dell'atmosfera e percorrono tutto il globo. Si intromettono in tutto ciò che accade sulla Terra, prendendo anche parte molto attiva ai nostri avvenimenti terreni.»
Per ciò che concerne le parole del Cristo sul supplizio del fuoco eterno, tale questione è trattata nel capitolo IV, intitolato "L'Inferno".
Le loro funzioni consistono dunque nel tormentare le anime che hanno sedotto. Così essi non sono incaricati di punire quelle che sono colpevoli di peccati liberamente e volontariamente commessi, ma quelle che essi hanno provocato. Contemporaneamente, essi sono la causa della colpa e lo strumento del castigo. E, cosa che la giustizia umana per quanto imperfetta non ammetterebbe, la vittima — la quale per fragilità soccombe all'occasione che si fa nascere per tentarla — è punita tanto severamente quanto l'agente provocatore che usa la malignità e l'astuzia. Anzi, ancor più severamente, poiché essa va all'inferno, lasciando la Terra, per non uscirne mai più e per soffrirvi senza né tregua né pietà per l'eternità, mentre quello che è la causa prima della sua colpa gode della sosta e della libertà fino alla fine del mondo! La giustizia di Dio non dovrebbe dunque essere più perfetta di quella degli uomini?
Almeno il castigo fosse solo temporaneo e il colpevole potesse riscattarsi con la riparazione! E invece no! Il colpevole è condannato per l'eternità. Il suo pentimento, il suo ritorno al bene, i suoi rimorsi sono superflui.
I demoni sono, così, gli agenti provocatori predestinati a reclutare anime per l'inferno, e ciò con il permesso di Dio, il quale sapeva, mentre creava quelle anime, la sorte che era loro riservata. Che cosa si direbbe, sulla Terra, di un giudice che ricorresse a tale espediente per popolare le prigioni? Strana l'idea che ci viene data della Divinità, di un Dio i cui attributi essenziali sono la suprema giustizia e la suprema bontà! Ed è nel nome di Gesù Cristo, di colui che non ha predicato che l'amore, la carità e il perdono, che si insegnano simili dottrine! Ci fu un tempo in cui tali anomalie passavano inosservate: non si comprendevano, non si ascoltavano neppure. L'uomo, curvo sotto il giogo del dispotismo, sottometteva ciecamente la sua ragione o, piuttosto, abdicava alla sua ragione. Ma oggi l'ora dell'emancipazione è scoccata: l'uomo comprende la giustizia, la esige durante la sua vita e dopo la sua morte. È per questo ch'egli dice:
"Questo non è e non può esser tale, oppure Dio non sarebbe Dio!"
Essi sono, dopo il peccato, ciò che l'uomo è dopo la morte. La riabilitazione di costoro, che sono caduti, è dunque impossibile; la loro perdita è d'ora in poi senza ritorno, ed essi perseverano nel loro orgoglio di fronte a Dio, nel loro odio contro il Suo Cristo, nella loro gelosia contro l'Umanità.
Non avendo potuto appropriarsi della gloria del cielo, con l'irruenza della loro ambizione, essi si sforzano di stabilire il loro dominio sulla Terra e di bandirne il regno di Dio. Il Verbo, fattosi carne, ha realizzato, nonostante costoro, i Suoi disegni per la salvezza e la gloria dell'Umanità. Tutti i loro mezzi d'azione sono convogliati per strapparGli le anime che Egli ha riscattato; l'astuzia e il tormento, la menzogna e la seduzione, tutto essi mettono in opera per condurle al male e perpetrarne la rovina.
Con simili nemici, la vita dell'uomo, dalla culla alla tomba, non può essere, ahimè, che una lotta perpetua, poiché quelli sono potenti e instancabili.
Questi nemici, in effetti, sono gli stessi che, dopo aver introdotto il male nel mondo, sono arrivati a coprire la Terra con le fitte tenebre dell'errore e del vizio; sono coloro che per lunghi secoli si sono fatti adorare come degli dei e che hanno regnato da padroni sui popoli dell'Antichità; sono coloro, infine, che esercitano ancora il loro tirannico dominio sulle regioni idolatre e che fomentano il disordine e lo scandalo fino in seno alle società cristiane.
Per comprendere di quante risorse disponga la loro malvagità, è sufficiente osservare che essi non hanno nulla delle prodigiose facoltàche sono appannaggio della natura angelica. Senza dubbio, l'avvenire e soprattutto l'ordine soprannaturale hanno dei misteri che Dio ha riservato a Sé stesso, e che essi non possono scoprire; ma la loro intelligenza è ben superiore alla nostra, perché essi con un colpo d'occhio intravedono gli effetti nelle cause, e le cause negli effetti. Questa penetrazione permette loro di annunciare in anticipo eventi futuri che sfuggono alle nostre congetture. La distanza e la diversità dei luoghi si cancellano davanti alla loro agilità. Più veloci del lampo, più rapidi del pensiero, essi si trovano quasi nello stesso tempo su diversi punti del globo, e possono descrivere a distanza gli eventi di cui sono testimoni nell'ora stessa in cui avvengono.
Le leggi generali attraverso le quali Dio regge e governa questo Universo non sono di loro dominio. Essi non possono contravvenirvi, né di conseguenza predire né operare veri miracoli; possiedono, però, l'arte di imitare e contraffare, entro certi limiti, le opere divine; sanno quali fenomeni risultano dalla combinazione degli elementi e predicono con certezza quelli che avvengono naturalmente così come quelli che hanno il potere di causare essi stessi. Da qui, quei numerosi oracoli, quei prodigi straordinari di cui i libri sacri e profani ci hanno tramandato memoria, e che sono serviti di base e di alimento a tutte le superstizioni.
La loro sostanza semplice e immateriale li sottrae ai nostri sguardi; essi sono al nostro fianco senza che noi ci se ne accorga; colpiscono la nostra anima senza colpire le nostre orecchie; noi crediamo di obbedire al nostro stesso pensiero, mentre subiamo le loro tentazioni e la loro funesta influenza. Le nostre disposizioni, al contrario, sono da loro conosciute attraverso le impressioni che ne proviamo, ed essi ci attaccano, generalmente, dal nostro lato debole. Per sedurci più facilmente, è loro abitudine presentarci attrattive e suggestioni conformi alle nostre inclinazioni. Modificano le loro azioni a seconda delle circostanze e dei tratti caratteristici di ogni temperamento. Ma le loro armi preferite sono la menzogna e l'ipocrisia.»
Si dice che il rimorso li perseguiti senza né tregua né pietà. Ma si dimentica che il rimorso è il precursore immediato del pentimento, se non è già il pentimento stesso. Si dice anche: "Divenuti perversi, essi non vogliono cessare d'esserlo, e lo sono per sempre". Dal momento che non vogliono cessare d'essere perversi, significa che non hanno rimorsi; se avessero il minimo rincrescimento, cesserebbero di commettere il male e chiederebbero perdono. Perciò, per loro, il rimorso non è un castigo.
Nel caso di un atto di clemenza, si sarebbe trattato di una grazia pura e semplice che avrebbe forse potuto essere un incoraggiamento al male? No. Si sarebbe trattato di un perdono condizionale, subordinato a un sincero ritorno al bene. Al posto di una parola di speranza e di misericordia, si fa dire a Dio: Perisca tutta la razza umana, piuttosto che la mia vendetta! E ci si stupisce che, con una simile dottrina, ci siano atei e miscredenti! È forse così che Gesù ci rappresenta il Padre Suo? Lui che ci ha dato un'esplicita legge dell'oblio e del perdono delle offese, che ci ha detto di rendere bene per male, che ha posto l'amore verso i nemici al primo posto delle virtù che ci faranno meritare il cielo, vorrebbe dunque che gli uomini fossero migliori, più giusti, più misericordiosi dello stesso Dio?
I demoni secondo lo Spiritismo
Ne risulta che esistono Spiriti a tutti i gradi di avanzamento morale e intellettivo, a seconda che si trovino in alto, in basso o a metà della scala. Ce ne sono, di conseguenza, a tutti i livelli di sapere e d'ignoranza, di bontà e di cattiveria. Nei posti inferiori stanno quelli che sono ancora profondamente inclini al male e che se ne compiacciono. Volendo, li si può chiamare demoni, poiché sono capaci di tutte le nefandezze attribuite a questi ultimi. Se lo Spiritismo non li cita con questo nome, è perché vi si connette l'idea d'esseri distinti dal genere umano, di natura essenzialmente perversa, votati al male per l'eternità e incapaci di progredire nel bene.
Coloro che, per la loro apatia, negligenza, ostinazione e cattiva volontà restano più a lungo nei ranghi inferiori ne sopportano la pena, e l'abitudine al male fa sì che per loro sia più difficile uscirne. Ma arriva il tempo in cui si stancano di questa esistenza e delle sofferenze che ne sono la conseguenza; ed è a questo punto che, confrontando la loro situazione con quella dei buoni Spiriti, comprendono che il loro interesse è nel bene, e cercano di migliorarsi, ma lo fanno di loro spontanea volontà e senza esservi costretti. Sono sottoposti alla legge del progresso per la loro inclinazione a progredire, ma non progrediscono contro la loro volontà. Dio ne fornisce loro incessantemente i mezzi, ma essi sono liberi di approfittarne o no. Se il progresso fosse obbligatorio, essi non avrebbero alcun merito, e Dio vuole invece ch'essi abbiano il merito delle loro opere. Egli non colloca nessuno al primo posto per privilegio, ma il primo posto è aperto a tutti, e vi arrivano solo con i loro sforzi. Gli angeli più elevati hanno conquistato il loro grado come gli altri, passando per la stessa strada comune.
Capitolo X - INTERVENTO DEI DEMONI NELLE MANIFESTAZIONI MODERNE
Finché non si sono avute sul mondo spirituale che delle nozioni incerte o sistematiche, ci si è potuti sbagliare; ma oggi che osservazioni rigorose e studi sperimentali hanno gettato la luce sulla natura degli Spiriti, sulla loro origine e sul loro destino, sul loro ruolo nell’Universo e sul loro modo di agire, la questione è risolta dai fatti. Si sa, prima di tutto, che si tratta delle anime di coloro che hanno vissuto sulla Terra. Si sa anche che le diverse categorie di Spiriti buoni e cattivi non costituiscono esseri di specie differenti, ma indicano soltanto gradi diversi di avanzamento. A seconda del posto che essi occupano, in ragione della loro evoluzione intellettiva e morale, coloro che si manifestano ci appaiono sotto gli aspetti più opposti, cosa che non ci impedisce di pensare che sono usciti tutti dalla grande famiglia umana, il selvaggio come il barbaro e come l'uomo civilizzato.
«Nei loro interventi esteriori, i demoni stanno molto attenti a dissimulare la loro presenza, per allontanare i sospetti. Sempre astuti e perfidi, tendono all'uomo le loro insidie prima di imporgli le catene dell'oppressione e della schiavitù. Qua risvegliano la sua curiosità attraverso fenomeni e giochi puerili; là risvegliano la sua ammirazione e lo soggiogano con l'incanto del meraviglioso. Se il soprannaturale traspare, se la loro potenza li maschera, essi calmano e placano le apprensioni, sollecitano la confidenza, provocano la familiarità. A volte si fanno passare per delle divinità o dei buoni geni; a volte assumono i nomi e anche i tratti fisionomici dei morti che hanno lasciato una memoria tra i vivi. Grazie a queste frodi, degne dell'antico serpente, essi parlano e vengono ascoltati; dogmatizzano e vengono creduti; mescolano alle loro menzogne alcune verità e fanno accettare l'errore sotto tutte le forme. È a questo che portano le pretese rivelazioni d'oltretomba; è per ottenere questo risultato che il legno, la pietra, le foreste, le fontane, i santuari degli idoli, le gambe dei tavoli, le mani dei bambini diventano oracoli; è per questo che la pitonessa profetizza nel suo delirio; è per questo che l'ignorante, in un suo sonno misterioso, diventa tutt'a un tratto il dottore della Scienza. Ingannare e pervertire: tale, dappertutto e in ogni tempo, è il fine di queste strane manifestazioni.
I risultati sorprendenti di queste pratiche o di questi atti, per la maggior parte bizzarri e ridicoli, non potendo provenire né da una loro virtù intrinseca né dall'ordine stabilito da Dio, non possono essere attribuiti che al concorso di potenze occulte. Tali sono, soprattutto, i fenomeni straordinari ottenuti, ai giorni nostri, dai procedimenti in apparenza inoffensivi del magnetismo, e dallo strumento intelligente delle tavole parlanti. Per mezzo di queste operazioni della magia moderna, vediamo riprodursi tra noi le evocazioni e gli oracoli, le consultazioni, le guarigioni e i sortilegi che hanno dato fama ai templi degli idoli e agli antri delle sibille. Come in Passato, si comanda al legno, e il legno obbedisce; lo si interroga, ed esso risponde in tutte le lingue e su tutti gli argomenti; ci si trova in presenza di esseri invisibili che usurpano i nomi dei morti e le cui pretese rivelazioni hanno il marchio della contraddizione e della menzogna; forme lievi e senza consistenza appaiono tutt'a un tratto e si mostrano dotate di una forza sovraumana.
Quali sono gli agenti segreti di questi fenomeni e i veri attori di queste scene inspiegabili? Gli angeli non accetterebbero questi ruoli indegni e non si presterebbero a tutti i capricci di una vana curiosità. Le anime dei morti, che Dio vieta di consultare, soggiornano nella dimora che ha loro assegnato la Sua giustizia, ed esse non possono, senza il Suo permesso, mettersi agli ordini dei vivi. Così, gli esseri misteriosi, che si presentano al primo appello dell'eretico e dell'empio come del fedele, del crimine così come dell'innocenza, non sono né gli inviati di Dio, né gli apostoli della verità e della salvezza, ma i seguaci dell'errore e dell'inferno. Malgrado l'impegno ch'essi mettono nel nascondersi sotto i più venerabili nomi, si tradiscono per l'inconsistenza delle loro dottrine, non meno che per la bassezza dei loro atti e l'incoerenza delle loro parole. Essi si sforzano di cancellare, dal simbolo religioso, i dogmi del peccato originale, della resurrezione dei corpi, dell'eternità delle pene, e tutta la rivelazione divina, al fine di sottrarre alle leggi la loro vera sanzione e di aprire al vizio ogni barriera. Se le loro suggestioni potessero prevalere, esse costituirebbero una religione comoda, a uso del socialismo e di tutti coloro cui la nozione del dovere e della coscienza repelle.
La miscredenza del nostro secolo ha loro facilitato il cammino. Possano le società cristiane, con un sincero ritorno alla fede cattolica, sfuggire al pericolo di questa nuova e temibile invasione!»
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[1] Le citazioni di questo capitolo sono estrapolate dalla medesima lettera pastorale da cui sono state estrapolate quelle del capitolo precedente, delle quali sono il seguito. Ne hanno, inoltre, la medesima autorevolezza.
La possibilità per le anime di comunicare con i vivi è una questione di fatto, un risultato dell'esperienza e dell'osservazione che non riteniamo di dover discutere qui. Ammettiamo invece, per ipotesi, la dottrina di cui sopra e vediamo se essa non si distrugge da sé stessa con i suoi stessi argomenti.
Si comprende, quindi, come essi si rivolgano a coloro che sono sulla retta via, e che per loro sarebbero perduti, se sulla retta via quelli persistessero. Si comprendono l'impiego della seduzione e i simulacri del bene per attirarli nelle loro reti. Ma il fatto incomprensibile è che essi si rivolgano a quelli che già appartengono a loro anima e corpo, per ricondurli a Dio e al bene. Ora, chi è nelle loro grinfie più di colui che rinnega e bestemmia Dio, e che s'inabissa nel vizio e nel disordine delle passioni? Non è forse costui già sulla strada dell'inferno? Ma come comprendere che, sicuri della loro preda, la incitino a pregare Dio, a sottomettersi alla Sua volontà, a rinunciare al male? Come comprendere che esaltino ai suoi occhi le delizie della vita dei buoni Spiriti e gli dipingano con orrore le condizioni dei malvagi? Si è mai visto un mercante decantare ai suoi clienti la merce del mercante vicino, a scapito della propria, e spingerli ad andare da quell'altro? Si è mai visto un reclutatore disprezzare la vita militare e lodare il riposo della vita domestica? Oppure dire loro che avranno una vita piena di fatiche e di privazioni; che hanno dieci probabilità su una di essere uccisi o quanto meno di avere le braccia e le gambe amputate?
Nondimeno, questo è lo stupido ruolo che si fa giocare al demonio, poiché è fatto notorio che, in seguito alle istruzioni emanate dal mondo invisibile, si vedono tutti i giorni non credenti e atei ritornare a Dio e pregare con fervore — cosa che non avevano mai fatto prima — e gente viziosa lavorare con ardore al proprio miglioramento. Pretendere che questa sia l'opera delle astuzie del demonio è voler fare di lui un vero grullo. Ora, siccome questa non è una supposizione, ma il risultato dell'esperienza, e siccome contro un fatto non c'è negazione possibile, bisogna concludere che il demonio è uno sprovveduto senza eguali, il quale non è poi né così astuto né così maligno come lo si dipinge, né di conseguenza così potente da essere temuto, dal momento che lavora contro i propri interessi. Oppure bisogna concludere che non tutte le manifestazioni provengano da lui.
Dopo di ciò, c'è da chiedersi allora qual è il valore di queste parole del Vangelo: "Io spanderò il mio Spirito sopra ogni persona; i vostri figli e le vostre figlie profetizzeranno, i vostri giovani avranno delle visioni, e i vostri vecchi sogneranno dei sogni. Anche sui miei servi e sulle mie serve, in questi giorni, spanderò il mio Spirito, e profetizzeranno" (Atti degli Apostoli 2:17-18). Non si tratta forse della predizione delle medianità data a tutti, anche ai bambini, e che si sta realizzando ai nostri giorni? Gli apostoli hanno forse gettato l'anatema su questa facoltà? No. Essi l'annunciano come un favore di Dio, e non come l'opera del demonio. I teologi dei giorni nostri ne sanno, dunque, su questo punto più degli Apostoli? Non dovrebbero vedere il dito di Dio nella realizzazione di queste parole?
In che cosa si ravvisano le operazioni della magia nelle evocazioni spiritiste? Ci fu un tempo in cui si poteva anche credere alla loro efficacia, ma al giorno d'oggi esse sono solo ridicole; non c'è alcuno che vi creda, e lo Spiritismo le condanna. Ai tempi in cui fioriva la magia, non si aveva che un'idea molto imperfetta sulla natura degli Spiriti, cui si guardava come a degli esseri dotati di un potere sovrumano. Li si evocava soltanto per ottenerne — foss'anche a prezzo della propria anima — i favori della sorte e della fortuna, la scoperta di tesori, la rivelazione del futuro, oppure pozioni magiche. La magia, con l'aiuto dei suoi segni, delle sue formule e delle sue operazioni cabalistiche, era ritenuta in grado di fornire pretesi segreti per operare dei prodigi, di indurre gli Spiriti a mettersi agli ordini degli uomini e soddisfare i loro desideri. Oggi sappiamo che gli Spiriti altro non sono che le anime degli uomini. Li si evoca solo per ricevere consigli dai buoni, per moralizzare i malvagi e per continuare i rapporti con gli esseri che ci sono cari. Ecco ciò che dice lo Spiritismo a questo riguardo.
— Per le evocazioni saranno necessarie alcune disposizioni speciali. La più essenziale di tutte le disposizioni è il raccoglimento, quando si desidera avere a che fare con degli Spiriti seri. Con la fede e il desiderio del bene si ha più forza per evocare gli Spiriti superiori. Elevando la propria anima con qualche istante di raccoglimento al momento dell'evocazione, ci si identifica con i buoni Spiriti e li si dispone a venire (Il libro dei Medium, cap. XXV).
— Nessun oggetto, medaglia o talismano ha la proprietà di attirare o respingere gli Spiriti; la materia non esercita alcuna azione su di essi. Mai un buono Spirito consiglierebbe simili assurdità. La virtù dei talismani non è mai esistita se non nell'immaginazione dei creduloni (Il libro dei Medium, cap. XXV).
— Non esiste alcuna formula sacramentale per l'evocazione degli Spiriti. Chiunque pretendesse di darne una potrebbe essere tacciato senza alcun timore di impostura, dal momento che per gli Spiriti la forma equivale a un nulla. Tuttavia l'evocazione deve sempre essere fatta nel nome di Dio (Il libro dei Medium, cap. XVII).
— Gli Spiriti che fissano degli appuntamenti in luoghi lugubri e in ore indebite sono Spiriti che si divertono a spese di quelli che li stanno ad ascoltare. È sempre inutile e spesso dannoso cedere a tali suggestioni: inutile perché non ci si guadagna assolutamente nient'altro che d'essere ingannati; dannoso, non per il male che possono fare agli Spiriti, ma per l'influenza che tali cose possono esercitare su delle menti deboli (Il libro dei Medium, cap. XXV).
— Non ci sono ore e giorni più propizi alle evocazioni; per gli Spiriti ciò è del tutto indifferente — come tutto ciò che è materiale —, e sarebbe una superstizione credere alla influenza dei giorni e delle ore. I momenti più propizi sono quelli in cui l'evocatore è il meno distratto possibile dalle sue occupazioni abituali; quelli in cui il suo corpo e il suo spirito sono più calmi (Il libro dei Medium, cap. XXV).
— La critica malevola si è divertita a presentare le comunicazioni spiritiste circondate da pratiche ridicole e superstiziose di magia e di negromanzia. Se coloro che trattano di Spiritismo senza conoscerlo si fossero data la pena di studiare ciò di cui hanno la pretesa di parlare, si sarebbero risparmiata la fatica dell'immaginare e dell'addurre, con ciò dimostrando la loro ignoranza e il loro malvolere. Semplificando, per le persone estranee alla Scienza, noi diremo che per comunicare con gli Spiriti non ci sono giorni né momenti né luoghi più propizi di altri; che per evocarli non occorrono né formule né parole sacramentali o cabalistiche; che non c'è bisogno di nessuna preparazione né di alcuna iniziazione; che l'impiego di qualsiasi segno od oggetto, sia per attrarli sia per respingerli, è senza effetto, e che il solo pensiero è sufficiente; infine, che i medium ricevono le comunicazioni degli Spiriti semplicemente e naturalmente, come se fossero dettate da un vivente, senza uscire dallo stato normale. Solo la ciarlataneria potrebbe far mostra di maniere eccentriche e aggiungere complementi ridicoli (Che cos'è lo Spiritismo, cap. II, n. 49).
— Il futuro, in linea di massima, deve essere tenuto nascosto all'uomo; è solo in casi rari ed eccezionali che Dio ne permette la rivelazione. Se l'uomo conoscesse il futuro, trascurerebbe il presente e non agirebbe con la stessa libertà, perché sarebbe dominato dal pensiero che, se una cosa deve accadere, non c'è bisogno di occuparsene oppure cercherebbe di contrastarla. Dio non ha voluto che fosse così, affinché ognuno potesse concorrere al compimento delle cose stabilite, anche di quelle alle quali vorrebbe opporsi. Dio permette la rivelazione del futuro quando questa preveggenza deve facilitare il compimento di qualcosa invece di avversarlo, impegnando l'uomo ad agire diversamente da come avrebbe fatto senza quella preveggenza (Il libro degli Spiriti, cap. X, nn. 868, 869, 870).
— Gli Spiriti non possono guidare gli uomini nelle ricerche scientifiche e nelle scoperte. La scienza è opera del genio; essa non deve acquisirsi che con il lavoro, perché è solo per mezzo del lavoro che l'uomo progredisce nel suo cammino. Quale merito avrebbe mai se non avesse che da interrogare gli Spiriti per sapere tutto? Ogni imbecille potrebbe diventare scienziato a questo prezzo. La stessa cosa avviene per le invenzioni e le scoperte industriali.
Quando il tempo di una scoperta è giunto, gli Spiriti incaricati di dirigere il cammino, cercano l'uomo in grado di portarlo a buon fine e gli ispirano le idee necessarie, in modo da lasciare a lui tutto il merito, poiché bisogna che egli elabori queste idee e le metta in opera. Ed è così per tutte le grandi opere dell'intelligenza umana. Gli Spiriti lasciano ogni uomo nella sua sfera. Di colui che non è adatto che a dissodare la terra non faranno certo il depositario dei segreti di Dio; ma sapranno trarre dall'oscurità l'uomo capace di assecondare i Suoi disegni. Dunque, non lasciatevi assolutamente trascinare dalla curiosità o dall'ambizione lungo una strada che non è lo scopo dello Spiritismo e che vi condurrebbe alle più ridicole mistificazioni (Il libro dei Medium, cap. XXVI).
— Gli Spiriti non possono far scoprire i tesori nascosti. Gli Spiriti superiori non si occupano di queste cose; ma ci sono Spiriti sbeffeggiatori che indicano spesso dei tesori che non esistono, oppure possono anche indicarne uno in un luogo, mentre esso si trova in un luogo opposto. E ciò ha la sua utilità, poiché serve a dimostrare che la vera fortuna è nel lavoro. Se la Provvidenza destina delle ricchezze nascoste a qualcuno, questi le troverà naturalmente; altrimenti no (Il libro dei Medium, cap. XXVI).
— Lo Spiritismo, illuminandoci sulle proprietà dei fluidi, che sono gli agenti e i mezzi di azione del mondo invisibile, e che costituiscono una delle forze e una delle potenze della Natura, ci dà la chiave di un gran numero di cose inesplicate e inesplicabili da ogni altro mezzo, e che sono potute passare, nei tempi trascorsi, per dei prodigi. Lo Spiritismo rivela, allo stesso modo del magnetismo, una legge, se non sconosciuta, almeno non ben compresa; o, per meglio dire, se ne conoscevano gli effetti, poiché essi si sono prodotti in ogni tempo, ma non se ne conosceva la legge, ed è l'ignoranza di questa legge che ha generato la superstizione. Conosciuta questa legge, il meraviglioso sparisce, e i fenomeni rientrano nell'ordine delle cose naturali. Ecco perché gli spiritisti non fanno miracoli, facendo ruotare una tavola o facendo scrivere i trapassati, più di quanto non ne faccia il medico che fa rivivere un moribondo, o il fisico che fa cadere il fulmine. Colui che pretendesse, con l'aiuto di questa scienza, di fare dei miracoli sarebbe, al riguardo, un ignorante o un imbroglione(Il libro dei Medium, cap. II).
— Taluni si fanno un'idea errata delle evocazioni. C'è chi crede che consistano nel far apparire i morti con tutto l'apparato lugubre della tomba. Non è come nei romanzi, nei racconti fantastici dei risuscitati o a teatro dove si vedono dei morti scheletriti uscire dai loro sepolcri avvolti in un lenzuolo, facendo scricchiolare le ossa. Lo Spiritismo — che non ha mai fatto miracoli — non ha mai fatto né questo né altro, né ha mai fatto risuscitare un morto. Quando un corpo è nella fossa vi rimane definitivamente. Ma l'essere spirituale, fluidico, intelligente non giace con il suo involucro pesante. Se ne libera al momento della morte e, una volta avvenuta la separazione, non ha più nulla in comune con il corpo (Che cos'è lo Spiritismo, cap. II, n. 48).
Quanto ai casi di guarigione, riconosciuti reali nella lettera pastorale più indietro citata, l'esempio — quale mezzo per evitare relazioni con gli Spiriti — è stato mal selezionato. È uno dei benefici che impressionano di più e che ciascuno può apprezzare; pochi saranno disposti a rinunciarvi, soprattutto dopo aver esaurito tutti gli altri mezzi, nella paura di essere guariti dal diavolo; più di uno, al contrario, dirà che se il diavolo lo ha guarito, il diavolo ha compiuto una buona azione. [2]
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[2] Volendo persuadere delle persone, guarite dagli Spiriti, che erano state guarite dal diavolo, un grande numero di esse si è radicalmente staccato dalla Chiesa, senza che mai prima avesse pensato di lasciarla.
L'autore si riferisce alle manifestazioni fisiche degli Spiriti, tra le quali ve ne sono alcune che sarebbero evidentemente poco degne di Spiriti superiori. E se alla parola angeli, voi sostituite quella di puri Spiriti o Spiriti superiori, voi avrete esattamente ciò che dice lo Spiritismo. Ma non si potrebbero mettere al medesimo livello le comunicazioni intelligenti, attraverso la scrittura, la parola, l'udito od ogni altro mezzo, le quali non sono indegne dei buoni Spiriti più di quanto non lo siano, sulla Terra, le comunicazioni degli uomini più eminenti, né le apparizioni, le guarigioni e una miriade di altre manifestazioni, che i libri sacri citano a profusione come opera degli angeli o dei santi. Se dunque gli angeli e i santi hanno prodotto in passato dei fenomeni, perché non dovrebbero produrne anche oggi? Perché i medesimi fatti dovrebbero oggi essere l'opera del diavolo, tra le mani di certe persone, mentre sono reputati miracoli santi tra le mani di altre? Sostenere una simile tesi vuol dire abdicare a ogni logica.
L'autore della citata lettera pastorale è in errore quando afferma che questi fenomeni sono inspiegabili. Al contrario, al giorno d'oggi essi sono perfettamente spiegati, ed è per questo che non si guarda più a essi come a fenomeni sorprendenti e soprannaturali. E se ancora non fossero così spiegati, attribuirli al diavolo non sarebbe più logico di quanto non fosse in passato fare l'onore al diavolo di attribuirgli tutti gli effetti naturali di cui non si comprendeva la causa.
Per ruoli indegni, bisogna intendere i ruoli ridicoli e quelli che consistono nel fare il male; ma non si può qualificare così il ruolo degli Spiriti che praticano il bene e riconducono gli uomini a Dio e alla virtù. Orbene, lo Spiritismo afferma espressamente che i ruoli indegni non fanno parte delle attribuzioni degli Spiriti superiori, così come dimostrano i precetti di seguito riportati.
— Gli Spiriti superiori si occupano solo di comunicazioni intelligenti, fatte allo scopo di istruirci. Le manifestazioni fisiche o puramente materiali rientrano in modo particolare nelle attribuzioni degli Spiriti inferiori, volgarmente designati col nome di Spiriti percussori, come fra noi i giochi di abilità sono cose da giocolieri e non da persone dotte. Sarebbe assurdo pensare che gli Spiriti, per poco elevati che siano, si divertano a dare spettacolo (Che cos'è lo Spiritismo, cap. II, nn. 37,40; vedere anche: Il libro degli Spiriti, 2° parte, cap. I: "Differenti ordini di Spiriti" e "Scala spiritista"; Il libro dei Medium, 2° parte, cap. XXIV: "Identità degli Spiriti" e "Distinzione tra i buoni e i cattivi Spiriti").
Qual è l'uomo che, in buona fede, potrebbe vedere in questi precetti un molo indegno attribuito agli Spiriti elevati? Non solo lo Spiritismo non confonde gli Spiriti, ma, mentre si attribuisce ai demoni una intelligenza uguale a quella degli angeli, lo Spiritismo constata, attraverso l'osservazione dei fatti, che gli Spiriti inferiori sono più o meno ignoranti, che il loro orizzonte morale è più o meno limitato e la loro perspicacia ristretta; che delle cose hanno spesso un'idea falsa e incompleta, che sono incapaci di risolvere certe questioni, la qual cosa li mette nell'impossibilità di fare tutto quanto viene attribuito ai demoni.
Anche lo Spiritismo dice che esse non possono venire senza il permesso di Dio, ma è ancora molto più rigoroso, perché dice che nessuno Spirito, buono o cattivo, può venire senza questo permesso, mentre la Chiesa attribuisce ai demoni il potere di farne a meno. Anzi, lo Spiritismo va ancora oltre, poiché afferma che, anche con questo permesso, allorché gli Spiriti si presentano all'appello dei vivi, ciò non significa affatto mettersi ai loro ordini.
Lo Spirito evocato viene spontaneamente oppure vi è costretto? — Egli obbedisce alla volontà di Dio, vale a dire alla legge generale che regge l'Universo. Tuttavia, il termine costretto non si adatta al caso, poiché lo Spirito giudica se è utile andare: e qui, ancora, egli esercita il libero arbitrio. Lo Spirito superiore viene sempre quando è chiamato per uno fine utile, egli si rifiuta di rispondere solo negli ambienti di persone poco serie e che trattano la cosa per divertimento (Il libro dei Medium, cap. XXV).
— Lo Spirito evocato può rifiutarsi di presentarsi all'appello che gli è stato rivolto? — Certamente. Dove sarebbe allora il suo libero arbitrio senza ciò? Ma voi credete che tutti gli esseri dell'Universo siano ai vostri ordini? E voi stessi d'altronde vi credete obbligati a rispondere a tutti quelli che pronunciano il vostro nome? Quando io dico ch'egli si può rifiutare, intendo su domanda dell'evocatore, perché uno Spirito inferiore può essere costretto a venire da uno Spirito superiore (Il libro dei Medium, cap. XXV).
Gli Spiritisti sono talmente convinti che essi non hanno alcun potere diretto sugli Spiriti e che non possono ottenerne niente senza il permesso di Dio, che, quando fanno appello a un qualsiasi Spirito, dicono: Prego Dio onnipotente di permettere a uno Spirito buono di comunicare con me e di farmi scrivere; prego anche il mio angelo custode di volermi assistere con benevolenza e di tenere lontano da me i cattivi Spiriti. Oppure, quando si tratta della chiamata verso un determinato Spirito: Io prego Dio onnipotente di permettere allo Spirito del tal dei tali di comunicare con me (Il libro dei Medium, cap. XVII, n. 203).
Indubbiamente, possono esserci delle persone che abusano delle evocazioni, che ne fanno un gioco, che le snaturano del loro fine provvidenziale per metterle al servizio dei loro interessi personali; che, per ignoranza, leggerezza, orgoglio o cupidigia, si allontanano dai veri principi della dottrina; ma lo Spiritismo serio condanna queste persone, così come la vera religione condanna i falsi devoti e gli eccessi del fanatismo. Non è dunque né logico né giusto imputare allo Spiritismo in generale gli abusi che esso stesso condanna, o gli errori di coloro che non lo comprendono. Prima di formulare un'accusa, bisogna accertarsi che essa colpisca giusto. Diremo dunque che il biasimo della Chiesa ricade sui ciarlatani, sugli sfruttatori, sulle pratiche di magia e stregoneria; e che su questo la Chiesa ha ragione.
Quando la critica religiosa o scettica smaschera gli abusi e stigmatizza il ciarlatanismo, non fa che mettere meglio in risalto la purezza della sana dottrina, aiutandola così a sbarazzarsi delle malefiche scorie. In tal modo essa facilita il nostro compito. Suo torto è quello di confondere il bene e il male, per ignoranza da parte dei più, per mala fede da parte di alcuni; ma la distinzione che essa non fa, altri la fanno. In tutti i casi, il suo biasimo, al quale ogni Spiritista sincero si associa — nei limiti di ciò che si applica al male —, non può colpire la dottrina.
Così, all'eretico e al criminale, Dio non permette che Spiriti buoni vadano a trarli fuori dall'errore per salvarli dalla perdizione eterna! Egli non invia loro se non i seguaci dell'inferno per meglio inabissarli nel letamaio! Ben di più, Egli non invia all'innocenza che degli esseri perversi per pervertirla! Dunque, tra gli angeli, queste creature da Dio privilegiate, non si trova nessun essere che abbia abbastanza compassione per venire in soccorso di queste anime perdute? A che cosa servono le brillanti qualità di cui essi sono dotati, se vengono impiegate solo per i loro personali godimenti? Sono poi buoni davvero se, immersi nelle delizie della contemplazione, essi vedono queste anime sulla strada dell'inferno, senza preoccuparsi di distoglierle? Non è forse questa l'immagine del ricco egoista che, pur avendo tutto a profusione, lascia, senza pietà, il povero morire di fame davanti alla sua porta? Non è forse questo l'egoismo elevato a virtù e posto ai piedi dell'Eterno?
Voi vi meravigliate che i buoni Spiriti si presentino all'eretico o all'empio; voi dimenticate allora queste parole del Cristo: "Non è colui che è in salute che ha bisogno del medico". Non riuscite voi a vedere le cose da un punto di vista più elevato di quello dei Farisei del suo tempo? E voi stessi, se foste chiamati da un miscredente, vi rifiutereste di andare da lui così da metterlo sulla buona strada? I buoni Spiriti fanno dunque ciò che fareste voi. Essi vanno dall'empio per fargli ascoltare delle buone parole. Invece di scagliare l'anatema sulle comunicazioni d'oltretomba, benedite le vie del Signore e ammirate la Sua onnipotenza e la Sua bontà infinita.
Ebbene, ciò che, secondo la Chiesa, non possono fare gli angeli custodi lo fanno i demoni per loro. Con l'aiuto di quelle stesse comunicazioni cosiddette infernali, essi riconducono a Dio coloro che Lo rinnegavano, al bene coloro che erano immersi nel male; essi ci offrono lo strano spettacolo di milioni di uomini che credono in Dio grazie alla potenza del diavolo, quando la Chiesa si era mostrata impotente a convertirli. Quanti uomini che non pregavano mai pregano oggi con fervore, grazie agli ammaestramenti di quegli stessi demoni! Quanti se ne vedono che, orgogliosi, egoisti e debosciati, sono divenuti umili, caritatevoli e temperanti! E poi si dice che questa è opera dei demoni! Se è così, bisogna convenire che il diavolo ha loro reso un più grande servizio e li ha assistiti meglio degli angeli. Bisogna avere una ben misera opinione del buon senso degli uomini in questo secolo, per credere ch'essi possano accettare ciecamente tali idee. Una religione, che fa d'una simile dottrina il suo cardine, che si dichiara privata delle sue fondamenta se le si levano i suoi diavoli, il suo inferno, le sue pene eterne e il suo Dio senza pietà, è una religione votata al suicidio.
Gesù non ha forse lasciato la dimora del Padre suo per nascere in una stalla? D'altronde, dove mai avete visto che lo Spiritismo attribuisce le cose volgari a degli Spiriti superiori? Esso dice proprio il contrario, asserendo che le cose volgari sono il prodotto degli Spiriti volgari. Ma, per la loro stessa volgarità, tali cose non hanno fatto altro che colpire di più le immaginazioni; esse sono servite a provare l'esistenza del mondo spirituale e hanno mostrato che questo mondo è tutt'altro da come uno se lo era figurato. Era l'inizio; era semplice come tutto ciò che inizia. Ma l'albero nato da un piccolo seme, non estende meno, più tardi, il suo fogliame. Chi avrebbe mai creduto che, dalla misera mangiatoia di Betlemme, sarebbe uscita un giorno la parola che doveva sconvolgere il mondo?
Sì, il Cristo è il divino Messia. Sì, la sua è la parola di verità. Sì, la religione fondata su questa parola sarà incrollabile, ma a condizione di seguire e di praticare i suoi sublimi insegnamenti e di non fare del Dio giusto e buono, che Gesù ci insegna a conoscere, un Dio parziale, vendicativo e senza pietà.
Capitolo XI - DELLA PROIBIZIONE DI EVOCARE I MORTI
"Non è permesso mettersi in rapporto con essi (gli Spiriti), sia immediatamente, sia attraverso la mediazione di coloro che li invocano e li interrogano. La legge mosaica puniva con la morte quei Gentili che esercitavano queste pratiche detestabili, in uso presso di loro.
'Non vi rivolgete agli Spiriti, né agli indovini,' è detto nel libro del Levitico; 'non li consultate, per non contaminarvi a causa loro'" (Levitico 19:31).
"Se un uomo o una donna sono negromanti o indovini dovranno essere messi a morte; saranno lapidati; il loro sangue ricadrà su di loro" (Levitico 20:27). E nel libro del Deuteronomio si legge: "Non si trovi in mezzo a te chi fa passare suo figlio o sua figlia per il fuoco, né chi esercita la divinazione, né astrologo, né chi predice il futuro, né mago, né incantatore, né chi consulta gli Spiriti, né chi dice la fortuna, né negromante, perché il Signore detesta chiunque fa queste cose; a motivo di queste pratiche abominevoli, il Signore, il tuo Dio, sta per scacciare quelle nazioni dinanzi a te" (Deuteronomio 18:10-12).
"Non vi rivolgete agli Spiriti, né agli indovini, non li consultate, per non contaminarvi a causa loro. Io sono il Signore vostro Dio" (Levitico 19:31)
"Se un uomo o una donna sono negromanti o indovini dovranno essere messi a morte; saranno lapidati; il loro sangue ricadrà su di loro" (Levitico 20:27).
"Quando sarai entrato nel paese che il Signore, il tuo Dio, ti dà, non imparerai a imitare le pratiche abominevoli di quelle nazioni. Non si trovi in mezzo a te chi fa passare suo figlio o sua figlia per il fuoco, né chi esercita la divinazione, né astrologo, né chi predice il futuro, né mago, né incantatore, né chi consulta gli Spiriti, né chi dice la fortuna, né negromante, perché il Signore detesta chiunque fa queste cose; a motivo di queste pratiche abominevoli, il Signore, il tuo Dio, sta per scacciare quelle nazioni dinanzi a te" (Deuteronomio 18:9-12).
D'altronde, è necessario rifarsi ai motivi che hanno provocato questa proibizione, motivi che avevano allora la loro ragion d'essere, ma che di certo non esistono più oggi. Il legislatore ebraico voleva che il suo popolo rompesse con tutti i costumi acquisiti in Egitto, dove quello delle evocazioni era in uso e costituiva soggetto d'abuso, come dimostrano queste parole d'Isaia: "Lo Spirito che anima l'Egitto svanirà, io renderò vani i suoi disegni; quelli consulteranno gli idoli, gli incantatori, gli evocatori di Spiriti e gli indovini" (Isaia 19:3).
Inoltre, gli Israeliti non dovevano contrarre alcuna alleanza con le nazioni straniere; e ora, stavano per ritornare le medesime pratiche presso quelle nazioni in cui erano sul punto di entrare e che dovevano combattere. Mosè dovette, dunque, per cause pratiche, infondere nel popolo ebraico, avversione per tutte quelle loro usanze che sarebbero potute diventare dei punti di contatto, se il popolo ebraico le avesse assimilate. Per giustificare questa avversione, bisognava presentare queste usanze come se fossero state condannate da Dio stesso. Da qui queste parole: Signore ha in orrore tutte queste cose; e distruggerà, al vostro arrivo, quelle nazioni che commettono questi crimini" (Deuteronomio 18:12).
"Se vi si dice: 'Consultate quelli che evocano gli Spiriti e gli indovini, quelli che sussurrano e bisbigliano', rispondete: 'Un popolo non deve forse consultare il suo Dio? Si rivolgerà forse ai morti in favore dei vivi?'" (Isaia 8:19)
"Io rendo vani i presagi degli impostori e rendo insensati gli indovini; io faccio indietreggiare i saggi e muto la loro scienza in follia" (Isaia 44:25).
"Si alzino dunque quelli che misurano il cielo, che osservano le stelle, che fanno pronostici a ogni novilunio; ti salvino essi dalle cose che ti piomberanno addosso! Ecco, essi sono come stoppia; il fuoco li consuma; non salveranno la loro vita dalla violenza della fiamma; non ne rimarrà brace a cui scaldarsi, né fuoco davanti al quale sedersi. Così sarà la sorte di quelli intorno a cui ti sei affaticata. Quelli che hanno trafficato con te fin dalla tua giovinezza andranno senza meta ognuno per conto suo e non ci sarà nessuno che ti salvi." (Isaia 47:13-15)
In questo capitolo, Isaia si rivolge ai Babilonesi, sotto la figura allegorica della "vergine figlia di Babilonia,... figlia dei Caldei" (Isaia 47:1). Egli dice che gli incantatori non impediranno la rovina della loro monarchia. Nel capitolo che segue, Isaia si rivolge direttamente agli Israeliti.
"Ma voi, avvicinatevi qua, figli della incantatrice, discendenza dell'adultero e della prostituta! Alle spalle di chi vi divertite? Verso chi aprite larga la bocca e cacciate fuori la lingua? Voi non siete forse figli di ribellione, progenie della menzogna, voi che v'infiammate fra i terebinti sotto ogni albero verdeggiante, che scannate i figli nelle valli sotto i crepacci delle rocce? La tua sorte è fra le pietre lisce del torrente; quelle, quelle son la fine che ti è toccata; a quelle tu hai fatto libazioni e hai presentato offerte. Posso io tollerare queste cose?" (Isaia 57:3-6)
Queste parole sono inequivocabili. Esse provano chiaramente che, in quel tempo, le evocazioni avevano come fine la divinazione e che se ne faceva commercio; esse erano associate alle pratiche della magia e della stregoneria e accompagnate anche da sacrifici umani. Mosè aveva dunque ragione a proibire queste cose e a dire che Dio le aborriva. Queste pratiche superstiziose si sono perpetuate fino al Medioevo; ma oggi la ragione ne ha fatto giustizia, e lo Spiritismo è venuto per mostrare lo scopo esclusivamente morale, consolatore e religioso delle relazioni d'oltretomba. Poiché gli Spiritisti non sacrificano le piccole creature e non spargono liquori per onorare gli dei; poiché non interrogano né gli astri né i morti né gli àuguri per conoscere il futuro, che Dio ha saggiamente tenuto nascosto agli uomini; poiché rifiutano di esercitare ogni traffico attraverso la facoltà — che alcuni hanno ricevuto — di comunicare con gli Spiriti; poiché non sono spinti né dalla cupidigia, ma da un sentimento pio e dal solo desiderio di istruirsi, di migliorarsi e di sollevare le anime sofferenti, la proibizione di Mosè non li riguarda in nessun modo. Questo è ciò che avrebbero visto coloro che la invocano contro gli Spiritisti, se avessero meglio approfondito il senso delle parole bibliche. Essi avrebbero riconosciuto che non esiste alcuna analogia tra ciò che accadeva tra gli Ebrei e ciò che insegnano i principi dello Spiritismo. Molto di più: avrebbero riconosciuto che lo Spiritismo condanna precisamente quelle stesse cose che costituivano le motivazioni della proibizione di Mosè. Ma, accecati dal desiderio di trovare un argomento contro le idee nuove, essi non si sono accorti che questo argomento poggia completamente sul falso.
La legge civile dei nostri giorni punisce tutti gli abusi che voleva reprimere Mosè. Se Mosè ha decretato il supplizio capitale contro i delinquenti, è perché aveva bisogno di mezzi rigorosi per governare quel popolo indisciplinato; così la pena di morte è largamente comminata nella sua legislazione. Egli, d'altronde, non aveva una grande scelta tra i suoi mezzi di repressione: non aveva né prigioni, né case di correzione nel deserto, né il suo popolo era tale da aver paura di pene puramente disciplinari; né poteva egli graduare le pene come si fa ai giorni nostri. È dunque a torto che ci basa sulla severità del castigo per provare il grado di colpevolezza riguardo all'evocazione dei morti. Fosse che, per rispetto verso la legge di Mosè, si dovrebbe mantenere la pena capitale in tutti i casi in cui essa veniva applicata? C'è da chiedersi, allora, perché si faccia rivivere con tanta insistenza questo articolo della legge, mentre si passa sotto silenzio l'inizio del capitolo in cui viene affermato: "I sacerdoti levitici, tutta quanta la tribù di Levi, non avranno parte né eredità con Israele; vivranno dei sacrifici consumati dal fuoco per il Signore e della eredità di lui. Non avranno, dico, alcuna eredità tra i loro fratelli; il Signore è la loro eredità, come egli ha detto loro" (Deuteronomio 18:1-2).
Questo articolo, che a noi sembra così assurdo, non aveva tuttavia quale obiettivo di punire il bue e di mandare assolto il suo padrone; esso equivaleva semplicemente alla confisca dell'animale, causa dell'incidente, per obbligare il proprietario a una maggiore sorveglianza. La perdita del bue era la punizione per il padrone, punizione che doveva essere abbastanza notevole per un popolo di pastori, da non dovergliene infliggere altre. Ma tale pena non doveva procurare vantaggi a nessuno: è per questo che era vietato mangiare la carne del bue abbattuto. Altri articoli di legge esaminano il caso in cui il padrone è responsabile.
Tutto aveva la sua ragion d'essere nella legislazione di Mosè, perché tutto vi era previsto fin nei minimi dettagli. Ma la forma così come l'essenza delle leggi mosaiche obbedivano alle circostanze in cui egli si trovava. Se Mosè ritornasse oggi a dare un codice a una nazione civile dell'Europa, certamente non le darebbe quello che aveva dato agli Ebrei.
Gesù non è forse venuto per modificare la legge mosaica, e la sua legge non è forse il codice dei Cristiani? Non ha forse egli detto: "Voi avete appreso che è stata detta agli Antichi la tale e tal cosa, e io vi dico la tal'altra cosa"? Ma ha forse toccata la legge del Sinai? In nessun modo. Egli anzi la conferma, e tutta la sua dottrina morale non ne è che lo sviluppo. Orbene, in nessuna parte, Gesù allude mai alla proibizione di evocare i morti. Questa, tuttavia, era una questione abbastanza grave e tale da non essere omessa nei suoi insegnamenti dal momento che trattò questioni ben più secondarie.
È dunque evidente che non ci si può logicamente basare sulla legge di Mosè in questa circostanza, per due specifici motivi: primo, perché tale legge non è alla base del Cristianesimo e, secondo, perché essa non è adatta ai costumi della nostra epoca. Ma anche accordandole tutta l'autorità che pure alcuni le accordano, essa non può, come abbiamo visto, essere applicata allo Spiritismo.
Mosè, è vero, nella sua proibizione, annovera anche l'interrogazione dei morti; ma ciò avviene in modo secondario e in quanto accessorio delle pratiche della magia. Il termine stesso interrogazione, messo accanto agli indovini e agli àuguri, prova che, presso gli Ebrei, le evocazioni erano un mezzo di divinazione; ora, gli Spiritisti non evocano i morti per ottenere delle rivelazioni illecite, ma per riceverne saggi consigli e procurare sollievo a coloro che soffrono. Certamente, se gli Ebrei si fossero serviti delle comunicazioni d'oltretomba solo con questo scopo, lungi dal proibirle, Mosè le avrebbe, invece, incoraggiate, perché esse avrebbero reso il suo popolo più trattabile.
Quando l'evocazione è fatta religiosamente e con raccoglimento; quando gli Spiriti sono chiamati, non per curiosità, ma per un sentimento di affetto e di simpatia, e con il desiderio sincero di istruirsi e di diventare migliori, non si vede che cosa ci sarebbe d'irriverente nel chiamare le persone dopo la morte piuttosto che quando sono ancora in vita. Ma c'è un'altra risposta perentoria a questa obiezione, ed è quella secondo cui gli Spiriti vengono liberamente e non per costrizione; vengono spontaneamente anche senza essere chiamati; testimoniano la loro soddisfazione nel comunicare con gli uomini e s i lamentano spesso dell'oblio in cui sono a volte lasciati. Se fossero disturbati nella loro quiete o fossero scontenti del nostro appello, essi lo direbbero oppure non verrebbero affatto. Poiché sono liberi, quando vengono è perché a loro ciò aggrada.
Il culto che si dispiegherà nella verità assoluta non avrà nulla da temere dalla luce, perché la luce farà scoprire la verità, e il demonio non potrà prevalere sulla verità.
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[1] Nota del traduttore: Togliere la lampada da sotto il moggio è espressione di origine biblica, che significa svelare una verità, una virtù o un pregio
"Ogni Spirito sofferente e dolente vi racconterà la causa della sua caduta e le lusinghe dalle quali si è lasciato sopraffare; vi dirà delle sue speranze, delle sue lotte, dei suoi terrori; vi dirà dei suoi rimorsi, dei suoi dolori, delle sue disperazioni; vi mostrerà Dio, giustamente indignato, che punisce il colpevole con tutta la severità della Sua giustizia. Ascoltandolo, voi vi muoverete a compassione per lui e sarete presi da timore per voi stessi. Se, poi, lo seguirete nei suoi lamenti, voi vedrete che Dio non lo perde mai di vista, attendendo che il peccatore si penta, per protendergli le braccia non appena quello provi ad avanzare. Del colpevole, infine, voi vedrete i progressi, ai quali voi avrete la gioia e la gloria di aver contribuito; e voi li seguirete con sollecitudine, così come il chirurgo segue i progressi della ferita, ch'egli medica ogni giorno" (Bordeaux, 1861).